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I vizi del «cantiere pensioni»

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vent’anni dalla riforma dini

I vizi del «cantiere pensioni»

I prossimo gennaio la legge Dini compirà vent’anni di esercizio. Le pensioni interamente contributive sono ancora poche, ma una componente di tal genere è ormai presente nella generalità di quelle liquidate dal 2012. Nonostante ciò, la cultura contributiva resta scarsa e il sistema gravemente incompiuto. Continua pagina 10

Mancano all’appello i coefficienti di trasformazione “per coorte”, la separazione dell’invalidità dalla vecchiaia, un restyling della reversibilità ispirato a logiche contributive, l’individuazione di una remunerazione dei contributi, diversa dalla crescita nominale del Pil, realmente in grado di garantire la sostenibilità strutturale ecc. Soprattutto, manca una “indicizzazione contributiva” delle pensioni, la cui prospettiva è stata ulteriormente allontanata dal provvedimento sbagliato con cui il governo ha reagito alla nota sentenza della Corte Costituzionale.

Il caos legislativo ha pervaso il ventennio, alla media di 1,5 provvedimenti all’anno per un totale di 30, aggravando gli errori e le lacune iniziali. Così è stato riguardo all’età pensionabile. Lo scalone della riforma Maroni e le ’quote’ poi introdotte per superarlo avevano cancellato due importanti scelte del Governo Dini: l’universalità delle regole e la flessibilità che i coefficienti di trasformazione sono invece deputati a consentire senza costi.

Originariamente prevista fra 57 e 65 anni, la flessibilità è stata ripristinata dalla riforma Fornero con l’eccesso di severità che le circostanze imponevano. I lavoratori “contributivi” (entrati in assicurazione dal 1996) possono andare in pensione fra 63 e 70 anni. Entrambi i limiti sono stati agganciati alla longevità, e dal 2016 già saranno di 7 mesi più alti. Ai requisiti anagrafici sono state aggiunte due condizioni “accessorie”: che sia maturata un’anzianità contributiva di 20 anni e l’importo della pensione abbia raggiunto il limite minimo di 2,8 volte l’assegno sociale, ridotto a 1,5 volte al compimento di 66 anni. Anche quest’ultima età è stata agganciata alla longevità, cosicché dal 2016 sarà di 7 mesi più alta.

L’età di 66 anni e 7 mesi, alla quale si allenta la seconda condizione accessoria imposta ai lavoratori contributivi, è la stessa che apre le porte della pensione ai lavoratori ’misti’ (entrati in assicurazione entro il 1995). In verità, così è per gli uomini e per le sole donne del settore pubblico, mentre le restanti possono andare in pensione prima fino al 2018, quando sarà completato il percorso di allineamento all’età minima maschile. La prossima tappa è il paventato ’scalino’ di gennaio. L’età pensionabile massima dei lavoratori misti è invece la stessa dei contributivi (70 anni e 7 mesi dal 2016). Perciò la riforma ha riservato ai primi una flessibilità decurtata di tre anni rispetto ai secondi. Un’ulteriore discriminazione riviene dai vent’anni di anzianità che i lavoratori misti devono ancora vantare al raggiungimento dell’età massima, mentre per quelli contributivi il requisito si abbassa a cinque.

Le sperequazioni sarebbero superate se, dal 2016, i lavoratori misti potessero anticipare la pensione a 63 anni e 7 mesi, purché la componente retributiva fosse abbattuta con ’logiche contributive’, cioè della differenza percentuale che separa il coefficiente di trasformazione dell’età prescelta da quello dell’età minima richiesta dalla riforma. Ad esempio, per andare in pensione a 64 anni, l’abbattimento dovrebbe essere percentualmente uguale alla differenza fra il coefficiente di detta età e quello dei 66 anni e 7 mesi. Dalla medesima data, ai lavoratori misti occorrerebbe richiedere le stesse condizioni accessorie di quelli contributivi.

Il provvedimento consentirebbe di superare le disparità, anche stridenti, che si profilano nell’ancor lungo periodo transitorio.

Ad esempio, verrà il giorno in cui occorrerà spiegare, a chi ha cominciato a lavorare nel dicembre del 1995 ed è quindi un lavoratore misto, che può andare in pensione tre anni dopo un collega che ha cominciato il mese successivo ed è quindi un lavoratore contributivo. Nel lungo termine, non vi sarebbe alcun costo perché la maggior durata delle pensioni anticipate sarebbe compensata dal minore importo delle stesse. In altri termini, l’aumento della spesa presente sarebbe compensato dalla diminuzione di quella futura.

Contrariamente a quanto era nell’aria prima dell’estate, il governo non sembra orientato a provvedimenti sistemici di tal genere. Infatti, è ’allo studio’ un provvedimento mirato ad ’attutire’ il ricordato scalino che le donne (con l’eccezione delle impiegate pubbliche) devono salire a gennaio. Si tratta di un ritorno alla vecchia pensione di anzianità, che richiedeva 35 anni di contributi, riservato alle lavoratrici che hanno compiuto 62/63 anni. In verità, dallo scalino sarebbero dispensate le poche donne in grado di vantare anzianità di tal misura, mentre la grande maggioranza dovrebbe ancora subirlo avendo alle spalle carriere lavorative frammentate e avviate in ritardo.

Il provvedimento discriminerebbe gli uomini violando l’universalità delle regole ripetutamente reclamata dalla Ue. Discriminerebbe anche le lavoratrici autonome e quelle del settore pubblico, se a esse non fosse esteso. Altra incognita riguarda le lavoratrici contributive.

Se non fossero toccate, la discriminazione riguarderebbe anche loro, e arriverebbe il giorno in cui i nuovi diritti sarebbero riconosciuti alle donne che hanno cominciato a lavorare nel dicembre del 1995 e negati a quelle che hanno cominciato un mese dopo. Se invece lo fossero, la nuova ’pensione d’anzianità femminile’ sarebbe permanente, come la discriminazione per genere da essa generata.

In conclusione, il provvedimento in preparazione non promette nulla di buono. Se non ci sono i soldi per consentire alla generalità dei lavoratori misti la stessa flessibilità di quelli contributivi, meglio sarebbe lasciare le cose come stanno.

Il governo sta anche preparando interventi di sostegno permanente agli “esodati”. Occorre evitare la riedizione di forme occulte di politica industriale impropriamente a carico del sistema pensionistico, anziché della fiscalità generale. Per separare l’assistenza dalla previdenza, si cominci da qui.

Università di Roma La Sapienza

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