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C’era una volta la grande Europa di Kohl e Mitterrand

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l’analisi

C’era una volta la grande Europa di Kohl e Mitterrand

Le aspettative erano altissime. Angela Merkel e François Hollande, invitati a parlare insieme davanti all’europarlamento, le giustificavano ampiamente.

Un solo precedente e che precedente: il Muro di Berlino era caduto da meno di 15 giorni, l’Europa dei 12 reagiva impaurita e in totale confusione mentale. Il 22 novembre 1989 Helmut Kohl e François Mitterrand decisero di presentarsi insieme a Strasburgo per rassicurarla, lanciando però paradossalmente due messaggi opposti. Il cancelliere decantò le promesse del nuovo mondo post-comunista, della riunificazione tedesca e continentale.

Il presidente francese tentò invece di frenare gli ardori emotivi che in quei giorni impazzavano dovunque a Est.

Ieri, 26 anni dopo, la coppia franco-tedesca è tornata di fronte allo stesso emiciclo per provare a gestire la seconda svolta storica europea dall’impatto potenzialmente ancora più sconvolgente: il flusso incontrollato dei rifugiati provocato dall’implosione di un altro ordine geo-politico a ridosso dei confini, l’area che si estende dal Medio Oriente al Golfo fino al Nord Africa.

«Il dramma della Siria ci riguarda perché quello che vi succede determinerà i nuovi equilibri del Medio Oriente per lungo tempo. Se permetteremo che lo scontro religioso tra sunniti e sciiti peggiori, non illudiamoci di non esserne toccati. Sarà guerra totale, una guerra che investirà il nostro territorio. Per questo dobbiamo agire», ha avvertito Hollande giustificando il proprio intervento militare.

«Siamo di fronte a una sfida di proporzioni storiche» ha affermato la Merkel insistendo sulla necessità che l’Europa si muova unita affrontando insieme «anche l’immenso compito dell’integrazione degli immigrati nelle nostre società in linea con i nostri valori fondamentali». «In questa crisi non si può agire solo a livello nazionale, ci vuole più Europa, più coraggio e coesione. Francia e Germania sono pronte».

Nessun annuncio concreto. Niente di nuovo sulle politiche di asilo se non la conferma che Dublino è morta, il futuro sono le quote obbligatorie, i centri di raccolta e registrazione, il rafforzamento di Frontex e gli aiuti ai Paesi extra-Ue, Turchia in testa, che accolgono i profughi.

Più di quello che è stato detto, a fare più rumore in realtà sono stati i silenzi selettivi, le cose volutamente taciute per non mettere a nudo le troppe divergenze che oggi tormentano il dialogo franco-tedesco, come del resto la capacità dell’Europa di esistere a 28 come qualcosa di più di una bella figurina da ostentare.

Hollande ieri ha cercato di allargare gli orizzonti del suo discorso, parlando della vitale necessità di approdare a una politica di difesa europea indipendente, di rafforzare il governo dell’eurozona facendo le scelte istituzionali necessarie e ricorrendo anche alle integrazioni differenziate: «Se non andrà avanti, l’Europa tornerà indietro, il nazionalismo è guerra, il sovranismo è declinismo» ha dichiarato con un evidente messaggio a Marine Le Pen, il leader del Front National che sedeva nell’aula.

Merkel ha preferito glissare, non ha offerto se non una generica spalla al presidente francese. In parte perché non è d’accordo sulla sua linea, in parte perché non ritiene che oggi nell’Europa a 28 ci siano gli spazi per grandi passi avanti come riformare i Trattati Ue o aumentare il bilancio europeo. E in parte perché oggi è un cancelliere che comincia a vedere impallidire il blasone politico: la sua popolarità è in discesa, il suo partito ne critica la gestione della questione rifugiati mentre quello anti-immigrati aumenta i consensi. L’economia tedesca sta infilando una serie di dati negativi con produzione industriale e ordinativi in calo e crescita in frenata. Il raffreddamento cinese non aiuta, il caso Volkswagen poi potrebbe rivelarsi un disastro.

Anche se per tutti a parole l’Europa è un imperativo categorico di sopravvivenza, e di fatto lo è, nella realtà la dimensione nazionale continua a soverchiare tutti anche perché è in casa e non in Europa che si decide il destino ultimo di un governo. Oggi forse molto di più di 26 anni fa. Per questo la messa cantata di Strasburgo ieri è stata un rito di forma più che di sostanza: poche emozioni e ancora meno azioni concrete.

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