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Il filo spezzato tra salari e inflazione

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contratti da rifare

Il filo spezzato tra salari e inflazione

Tutelare l’occupazione o i salari? È il dilemma di sempre per chi presidia le relazioni industriali. Tutelare entrambi contemporaneamente non è possibile avendo risorse limitate se non nulle.

L’Italia rifiata dopo otto anni in cui si sono persi un milione di posti di lavoro e in cui il settore industriale ha lasciato sul campo il 20% della sua capacità produttiva: i margini di profitto e gli attivi delle aziende sono ancora risicati. La velocità della ripresa è ancora modesta e conta su un Pil che a fine anno sarà cresciuto un po’ meno dell’1% fatto che rende urgenti nuovi investimenti per dare robustezza alla rirpesa.

È chiaro che la priorità del Paese è quella di creare occupazione il più velocemente possibile, assorbendo chi oggi è assistito dagli ammortizzatori sociali e creando il più possibile posti aggiuntivi.

La discussione su come rinnovare importanti contratti collettivi (meccanici, chimici, alimentaristi) giunge nel pieno di questa fase di delicato rilancio dell’economia. E arriva al culmine di una discussione che data ormai decenni sulla riscrittura del modello di relazioni industriali e, soprattutto, sulla revisione dell’assetto contrattuale.

In genere se si vuole creare lavoro non si possono aumentare i salari di chi già è occupato al di fuori da standard di compatibilità macroeconomica molto precisi. Ne va dell’equilibrio complessivo del sistema produttivo. Se, quindi, i rinnovi dei contratti arrivano in un momento in cui l’inflazione di riferimento (l’indice Ipca depurato dei costi dell’energia importata) ha segnato aumenti inferiori del 6,5% (2000-2014) rispetto alle dinamiche contrattuali effettive perchè “tarate” su attese di inflazione molto più alte, è chiaro che le risorse per organizzare nuovi accordi sono praticamente nulle o già spese. Una elaborazione Federmeccanica segnala, ad esempio, un andamento dell’inflazione 2007-2014 pari al 13,2% contro un aumento delle retribuzioni della grande industria del settore del 23,6 per cento.

Quindi la dinamica dei rinnovi ha finora garantito aumenti ben superiori all’aumento del costo della vita.

E il la voro (nota Csc Confindustria) ha così riportato agli Anni 70, massimo storico, la quota sul valore aggiunto arrivata ormai al 74,3% (era del 74,2% nel 1975), con conseguenze negative per la propensione agli investimenti dati i margini ridotti di profitto.

La fase di deflazione non era prevedibile nel momento dei precedenti rinnovi e, di fatto, l’attuale sistema non ha mai consentito di gestire fasi di aumenti economici eccedenti i parametri. +++++

Quel modello non tiene più. Anche l’aggancio all’inflazione Ipca si è dimostrato alla lunga “starato”, poco prevedibile e scarsamente efficiente perché dipende da scelte di+ politica monetaria decise a Francoforte dalla Bce e dagli andamenti del prezzo del petrolio e da parametri dell’economia globale, dinamiche per nulla influenzabili dai comportamenti dei contraenti di un contratto nazionale di lavoro in Italia.

Tuttavia al sistema serve un quadro di riferimento certo ed esigibile per evitare giungle retributive e scompensi nella competitività del Paese. E, soprattutto, servono le condizioni per creare produttività e per quella via creare ricchezza da redistribuire secondo nuovi criteri di equilibrio. Equilibrio che oggi non c’è: nel solo settore metalmeccanico, nel periodo della crisi (2007-2014) il costo del lavoro è aumentato del 23,1%, la produttività dello 0,9% e il costo del lavoro per unità di prodotto del 21,9%, con dinamiche molto superiori a quelle dei concorrenti europei.

La sottoscrizione semiautomatica dei rinnovi che scommettono su inflazioni programmate, ma in realtà non più programmabili, è da archiviare come ultimo epigono di una stagione di automatismi che tanta gloria ha avuto negli anni 70 e tanti guasti ha fatto all’economia del Paese nei 30 anni successivi.

Le relazioni industriali hanno un compito strategico e di svolta: creare nuovi sistemi che rendano prevedibili e realistiche le dinamiche delle retribuzioni garantendo una cornice di riferimento, la più ampia possibile, uscendo dalla pigrizia degli automatismi usati finora.

La storia si incarica spesso di riportare indietro le lancette degli orologi e così ancora adesso la vera discussione è la stessa che portò all’accordo del ’93, quello che abbattè l’inflazione e consentì all’Italia di entrare nell’euro: come evitare la sovrapposizione dei due livelli contrattuali, nazionale e aziendale. Nonostante il testo di allora prevedesse puntigliose indicazioni dei due diversi ambiti di intervento, dopo oltre 20 anni, quel “disciplinare” è stato inattuato. È arrivato il momento di correggere quell’errore tanto più che ora il nemico da battere è la deflazione.

Se l’Italia trovasse le energie e l’intelligenza per farlo potrebbe diventare un esempio in Europa nel momento in cui la Francia scarroccia nella deriva violenta di un massimalismo fuori dalla storia e la Germania si chiude in una orgogliosa cogestione difensiva dopo lo scandalo Volkswagen che è diventato scandalo di nazione.

D’altro canto lo sguardo lungo della leadership delle parti sociali (se è tale) non può non puntare a un orizzonte europeo: è là che si determinano le nuove variabili macroeconomiche, è là che si crea la nuova cittadinanza continentale, è là che si troveranno le risorse per gestire i tanti welfare nazionali non più sostenibili.

Sarà bene prepararsi per tempo. Ma certo per farlo servirà un sindacato in grado di g uardare oltre il proprio ombelico.

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