E ora che Matteo Renzi è riuscito a chiudere una fase, si trova davanti al vero dilemma: il dopo Marino. Chi candidare dopo di lui? È qui che si apre la finestra su un partito svuotato della capacità di produrre o intercettare classe dirigente adatta. Perché la vicenda di Roma illumina il tallone d’Achille del premier, quello di un Pd con un grande centro di gravità sulla sua leadership ma con il vuoto intorno.

Al di là dell’ultimo paradosso di un sindaco che si dimette ma che minaccia di “ripensarci”, quello che la vicenda di Roma illumina è un gigantesco vuoto nel Pd. Il vuoto di un partito che non sa più scegliere e selezionare candidati e classe dirigente. È vero che Ignazio Marino fu scelto con le primarie e poi votato dai romani, ma la prima selezione è stata fatta comunque dal partito o almeno da quell’area del Pd romano che ha continuato a difenderlo fino a poche ore fa. Matteo Renzi ha abbozzato, poi ha pensato di poter prendere le distanze, infine si è arreso anche lui all’evidenza di un sindaco palesemente inadeguato. E ora, anche se è riuscito – forse - a chiudere una fase, si trova davanti al vero dilemma: il dopo Marino. Chi candidare dopo di lui? È qui che si apre la finestra su un partito svuotato della capacità di produrre o intercettare una classe dirigente adatta.

È facile immaginare che il futuro candidato non sarà un Democratico, probabilmente nemmeno un politico. Ma allora a cosa serve un partito? Quello che si vede è che si sta riducendo a fare scouting tra categorie professionali e mestieri, andare a caccia di società civile o magistrati a seconda dell’onda emotiva del momento senza un minimo di valutazione sulle effettive capacità dei candidati e senza considerare che i fallimenti - poi - si riflettono comunque sul partito. Con Marino è andata proprio così. Lui nasce dalla furbizia del Pd romano di assecondare l’anti-politica e coprire con un “nome” quello che il partito ha continuato a fare come hanno rivelato le inchieste su “mafia capitale”.

Il problema oggi per Renzi è ricominciare da qui. È questo il suo tallone d’Achille: un Pd disegnato con un grande centro di gravità sulla leadership nazionale ma con il vuoto intorno. Si è visto con le elezioni regionali della scorsa primavera. I conti di vittorie e sconfitte daranno pure il segno positivo ma, a leggerci dentro, si vede che i candidati del Pd renziano, in Liguria e in Veneto, sono stati sconfitti mentre sono emersi leader locali, con un’impronta personale e non di partito come Michele Emiliano e Vincenzo De Luca. È vero che è un’eredità che si è ritrovato. Che tutto è cominciato prima e che in fondo anche l’idea delle primarie nasce da quest’affanno del partito nel fare il suo mestiere. Un affanno che si è visto anche ai tempi di Pierluigi Bersani, alla scorsa tornata delle comunali, quando il Pd non riuscì a imporre nessun candidato nelle grandi città: Milano, Genova, Napoli. Oggi la vicenda di Roma illumina questo grande affanno. E fa partire la corsa per le amministrative decisamente in salita.

Tra l’altro il fatto che la Capitale si aggiunga agli appuntamenti elettorali di Milano, Napoli e Bologna, trasforma il voto di maggio in un vero esame per il premier. In cui non basterà offrire il taglio della tassa sulla casa ma servirà mettere in campo un’immagine nuova del Pd sul territorio. E dire anche una parola chiara sulle primarie che da strumento di competizione interna si sono trasformate in una de-responsabilizzazione del partito nell’assumere le scelte. Renzi nasce dalle primarie per sindaco di Firenze, ebbe il coraggio di candidarsi contro il candidato ufficiale di partito, ma oggi cosa pensa?

Le amministrative mettono alla prova tutti. Un centro-destra che deve ritrovare una strada, un Movimento 5 Stelle che questa volta non può mancare l’obiettivo di vincere una grande città ma è sempre il leader che governa quello sotto pressione. Soprattutto se può perdere città guidate dal centro-sinistra.

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