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Gli scossoni economici di Brexit

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IL REGNO UNITO E IL REFERENDUM

Gli scossoni economici di Brexit

Un giorno indefinito fra l’autunno del 2016 e la primavera del 2017, la Gran Bretagna dirà di “No” all’Unione Europea, la Scozia subito dopo divorzierà dal Regno di Elisabetta, mentre Galles e Irlanda del nord entreranno in una fibrillazione secessionista destinata a lasciare sul campo la bandiera bianco-crociata di san Giorgio. Little England, intonata dagli indipendentisti di Nigel Farage, sarà sbocciata per l’avventurismo del premier conservatore David Cameron, occupando il centro geografico della maggiore isola britannica.

Accadrà? Potrebbe accadere se la retorica dell’eroica solitudine, se la lacrima per l’antica dimensione imperiale, se la mistificazione di un realtà diversa da quella narrata prevarranno, spingendo un popolo a battere sentieri inesplorati della politica e dell’economia. Aggirato, per ora, il rischio immediato della secessione scozzese, passate le elezioni di maggio, chiusa la stagione dei congressi politici con il battesimo pubblico del neo-leader laburista Jeremy Corbyn e l’avvio della battaglia Tory per il dopo Cameron, Londra, ha davanti a sé un gigantesco ostacolo: il referendum sull’Unione europea.

Non dovrebbe pensare ad altro e invece, per mesi, è parsa una sonnambula sul ciglio del precipizio. «Qualcosa del genere – sostiene Willem Buiter economista capo di un colosso globale come Citigroup, già membro del Comitato di politica monetaria della Banca d’Inghilterra, olandese di nascita, britannico d'adozione, americano per consuetudine professionale – perché il rischio connesso con il Brexit è grandemente sottovalutato. Non c’è in gioco solo l’esplosione del Regno Unito, ma la fuga generalizzata dall’Unione che si troverebbe esposta come mai prima d'ora ai populismi e ai sentimenti antieuropeisti in voga in Francia, Olanda, Finlandia, dovunque. L’esempio inglese potrebbe fare scuola, lasciandoci con 28 piccoli Paesi senza peso economico e influenza globale».

Di globale ci sarebbero le conseguenze. Perché come il Grexit per l’euro così il Brexit per la Ue avrebbe la forza di creare un “economic event” che va molto oltre la Manica. «Ricorda le scosse – continua Buiter – che abbiamo visto sui mercati per l'aggiustamento al cambio dello yuan la scorsa estate? Nulla rispetto a quanto potrebbe provocare l’addio britannico alla Ue». L’impatto planetario dipenderà in larga misura da quello interno al Regno, qualora, ovviamente, si riuscisse a evitare l’armageddon con il paventato contagio a Edimburgo, Cardiff, Belfast e alle altre capitali della Ue. Pochi hanno prodotto numeri seri sul costo della non Europa per la Gran Bretagna perché si tratta di un esercizio complesso e vago. Ci limitiamo a citare la ricerca di Open Europe, il think tank eurospettoso fondato da Mats Persson oggi consigliere di David Cameron, che nello scenario più estremo immagina una caduta del Pil del 2,2% e la ricerca del Centre for economic performance della London school of economics che in uno studio firmato anche da Gianmarco Ottaviano immagina una perdita del pil del 3,1%. «Ma sul lungo periodo – avvertono gli economisti della Lse – la caduta degli scambi innescherà un rallentamento della crescita produttiva... e questo potrebbe raddoppiare il costo del Brexit, provocando un declino del Pil britannico analogo a quello registrato nella crisi del 2008-2009». L’attenzione sul commercio è inevitabile: se nel 1973 anno dell’adesione alla Cee, l’export di Londra nella Ue non andava oltre il 30% del totale, oggi supera il 50 per cento.

La differenza a tante variabili la faranno le condizioni che il governo britannico riuscirà a spuntare nel negoziato successivo al referendum. L’articolo 50 del trattato sull’Unione prevede che in caso di uscita di uno Stato membro ci siano due anni di tempo per definire le nuove intese. David Cameron ha già detto che una soluzione alla norvegese non gli va bene: sarebbe inaccettabile per un Paese del peso del Regno Unito condividere il mercato interno, seppure con le eccezioni negoziate da Oslo, senza alcuna possibilità di interferire sulla formazione delle norme. Troppo complessa e articolata anche la via della Svizzera. «La Ue fu generosa con la Confederazione - spiega Jonathan Portes direttore del National institute for economic and social research – molti leader europei non vorranno concedere un trattamento simile dopo il Brexit. La City di Londra, soprattutto, non è Zurigo. Non dimentichiamo che il rischio più significativo lo corre il settore finanziario che pagherà il prezzo dell’incertezza di due anni di trattative per definire il nuovo assetto delle relazioni anglo-europee. E poi quando sarà stato trovato un compromesso tutte le energie dell’amministrazione britannica e di quella comunitaria saranno rivolte a sciogliere la matassa di un legame quarantennale. Un lavoro immenso».

Dai nuovi accordi dipenderà il destino degli investimenti esteri diretti (Fdi) di cui Londra è primatista nell’Unione. Sull’automotive, capitolo centrale della debole manifattura britannica, Portes immagina un’intesa pan-europea con dazi bassi e quindi la capacità del Paese di restare un grande polo dell’auto (giapponese e americana) proiettato sui mercati europei. Non si può dire lo stesso per la City. Goldman Sachs fu la prima a suonare l’allarme ribadito dal coo Gary Cohn che ha detto essere “imperativo” per Londra rimanere nella Ue. Pena l’addio verso nuovi lidi e non solo per via della revoca del “passaporto”, garantito dal mercato interno, che consente alle banche di operare dalla City in tutta la Ue . «È già molto difficile– precisa Willem Buiter – rimanere un centro finanziario globale con una piccola valuta nazionale: oggi possono essere considerate tali solo il dollaro e l’euro che è certamente più simile a una divisa di peso di quanto possa essere il pound. Figuriamoci se la Gran Bretagna fosse anche fuori dalla Ue. Fuga verso Francoforte ? Non so esattamente verso dove, ma molte banche stanno trasferendo il quartier generale in Irlanda, Citi compresa. L’esempio più evidente della ricaduta del Brexit nella realtà dei fatti la troviamo riassunta nella querelle sulle piattaforme dei derivati che operano in euro e che la Bce voleva fossero fisicamente collocate nell’Unione. La Corte europea ha dato ragione alla City, ma in caso di uscita dalla Ue i britannici non avrebbero neppure avuto la possibilità di fare ricorso»”.

Questo a Londra lo sanno, ma sperano di poter sfruttare tutti i benefici del single market senza subire forme di “discriminazione valutaria” e, di fatto, senza i vincoli ulteriori che esso potrebbe comportare in futuro. VoteLeave composito fronte che unisce gli ultras del Brexit incalza David Cameron a battersi per una sorta di diritto di veto di Westminster sulla normativa comunitaria. Altri pensano a improbabili lacci sulla Corte europea per evitare che ricorsi futuri facciano deragliare l’assetto che Londra e Bruxelles riusciranno a trovare. Pensieri in libertà, come quelli che popolano i sonni di avanguardie euroscettiche impegnate a immaginare per la Gran Bretagna tutta un destino da Hong Kong. Una metamorfosi fatta di bassa tassazione, bassa regolamentazione finanziaria, ma anche basse tutele che dovrebbe essere promossa da elettori ultrasessantenni, conservatori per formazione, anagrafe e cultura e anche per questo “euroscettici”. L’altro mantra del No alla Ue riguarda la teorica libertà che Londra guadagnerebbe sul côté commerciale. Lo studio della London School dice il contrario, i fatti anche. Nella trattativa commerciale con l’India, infatti, l’Unione ha pagato il prezzo dell’opposizione britannica alle richieste sui visti di Nuova Delhi: se Londra fosse sola quelle stesse obiezioni resterebbero ostacolo insuperabile anche perché portate avanti da un singolo Paese, senza la forza dell’Unione intera.

Un passaggio, questo, stigmatizzato dagli industriali britannici che non vogliono le quote sui visti per i lavoratori qualificati stranieri temendo un rallentamento della crescita. La Cbi (Confindustria britannica), poi, non si stanca di ripetere che non è l'adesione all’Unione a frenare il commercio con le realtà extra Ue. «La stragrande maggioranza dei nostri associati – precisa Rain Newton Smith direttore del Dipartimento di economia di Cbi – vuole restare nell’Unione seppure riformata».

L’equivoco è tutto qui. È legittimo che Londra chieda protezioni dinnanzi alla crescente integrazione dell’Eurozona, per questo David Cameron ha sempre detto di essere favorevole al “Sì” alla Ue se le sue condizioni saranno accolte. Il problema è capire che riforme, in concreto, pretende il governo di Londra e in che modo possano, realisticamente, declinarsi con l'urgenza di nuove regole che spazza sia la Ue sia l’Eurozona. Downing Street ha scelto l’arrocco su quattro punti: il mercato interno va completato accelerando sui capitoli che agevolano la competitività; la libera circolazione dei lavoratori non deve coincidere con l'automatica concessione della piena assistenza sociale ai cittadini Ue perché troppo onerosa per lo Scacchiere; la Gran Bretagna deve potersi liberare dal vincolo dell’adesione a un’“Unione sempre più stretta” previsto dai Trattati; vanno definite le tutele per i Paesi non euro in vista della maggiore integrazione dell’Eurozona. Se sul primo punto i margini di manovra sono ampi, se sul secondo l'intesa è, in realtà, possibile, sul terzo e quarto si entra nella vaghezza più totale. Ogni tentativo di stanare David Cameron sbatte contro un muro: come possiamo svelare i nostri veri obiettivi ? Falliremmo nella trattativa, è la replica di un governo schiacciato - per sua scelta - fra le resistenze dei partners e il fuoco dei compagni di partito sostenuti dalle falangi eurofobiche dell’Ukip. E, con il governo, un Regno intero.

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