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Il cinismo inglese che fa tremare l’Europa

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POLITICA E BREXIT

Il cinismo inglese che fa tremare l’Europa

Uno spettro si aggira sull’Unione, quello della Gran Bretagna e delle sue convulsioni antieuropeiste. Si muove nella City di Londra, fra i diseredati del Nord e la borghesia del Sud del Regno, minaccia Roma e Parigi, Berlino e Varsavia, in attesa di un appuntamento con il destino che non ha ancora una data e già spacca il Paese, gravando sul futuro di Bruxelles. Da ieri si conoscono volti e nomi dei duellanti, favorevoli e contrari, di destra e di sinistra, alla partecipazione britannica all’Ue. Inners e outers, dispiegano il meglio di sé: politici, intellettuali, capitani d'industria, finanzieri, o solo demagoghi, in vista del referendum sull’adesione che si svolgerà prossimamente, ma che è già elemento di una nuova, gravissima destabilizzazione che mette a rischio la marcia comune dei Ventotto. Un “No” innescherà il cosiddetto Brexit, spingendo Regno Unito e Ue verso un esercizio estremo: con l’eccezione della Groenlandia non ci sono casi di uscita dall'Europa. Il pericolo è evidente per Londra, ma è un folle azzardo per la tenuta dell’edificio comune.

I sondaggi confermano la frattura del corpo elettorale britannico, nonostante gli inners favorevoli all’Unione siano in lieve vantaggio. È positivo perché, fino ad ora, la sola voce che si è udita - molto forte, mai esauriente - è quella degli outers, assemblaggio trasversale e non ideologico (ci sono laburisti e verdi) che va oltre l’eurofobia dell’Ukip di Nigel Farage. Un fronte che annovera anziani nostalgici; personalità controcorrente per il solo gusto di vedere l'effetto che fa, come Nigel Lawson, ex cancelliere di Margaret Thatcher; finanzieri inveleniti con Bruxelles; politici che rivendicano l’incomprensibile diritto di non cedere sovranità, ma anche la pretesa di condividere i vantaggi della casa comune europea. La parola degli inners, che vanta tre ex premier come John Major, Tony Blair e Gordon Brown, è stata fioca, ma giurano che ora si leverà.

È essenziale che gli euroscettici siano sconfitti. I partigiani del “Si” all’Ue e quelli del “No” dichiarano, entrambi, di incarnare “il bene della Patria”, ma il dibattito è zavorrato dalla banalità del messaggio negativo e dalla difficoltà di far filtrare quello positivo. Spiegare l’Europa è, da sempre, compito improbo, spiegarla agli inglesi è, talvolta, un esercizio estremo. Sono gettati in pasto a un popolo indifeso numeri e statistiche sapientemente modulati per convincere a stare fuori dall’Ue.

Ci pensa poi la stampa popolare - quella ferocemente antieuropeista di Rupert Murdoch - a riassumere tutto, impacchettandolo sotto un titolo accecante, fra il seno di una majorette e i dettagli truculenti di un omicidio. Indimenticabile, negli anni Novanta, il dito medio sollevato nella prima pagina del Sun, commentato con il titolo “Up yours Delors” e accompagnato dall’immagine dell’allora monsieur Europe colpevole di qualche misfatto antibritannico.Un trattamento del genere che si protrae per decenni lascia il segno ovunque, ma traccia il solco negli strati meno avvertiti della società, chiamati ora a misurarsi con una consultazione secca - dentro o fuori - di portata storica. I travagli dell’euro, è ovvio, non aiutano i sostenitori dell’Ue, le polemiche sui costi dell’immigrazione per il welfare britannico, se declinate con le immagini dei campi di Calais, neppure.

Lo spettro inglese incrocia pertanto i cieli del resto d’Europa, ma la storia affida a queste isole l’abitudine culturale a una reazione eccentrica rispetto al continente. È in parte, solo in parte comprensibile. Ciò che resta inaccettabile è, invece, il cinismo della politica britannica, anche agli occhi, navigati, di un osservatore italiano. Spingere il Paese e l’Europa tutta verso un dramma nazionale, a un passo da una decisione in grado di mutarne davvero i destini, per il solo scopo di evitare la frattura del partito conservatore, resta un atto di hubris che peserà per sempre su David Cameron. Una follia che l’Unione non meritava e non doveva correre.

Una mossa che, oltretutto, non potrà essere risolutiva sul lungo termine essendo politicamente inconsistente, al di là dell’effimero effetto sulla stabilità al potere del loro leader. Il primo ministro sa bene che un osso in più agli euroscettici non potrà placarne la fame. Anzi. Se perderà, il referendum sarà l’epitaffio sulla sua tomba politica, un miserevole capitolo nella storia del Regno, un disastro, lo ripetiamo, per tutti i partners. Se vincerà il “Sì”, come David Cameron lascia intendere di volere e come ci auguriamo per il bene comune, le spinte anti-Ue nel Conservative party subiranno solo una battuta d’arresto per riprendere, poi, con la lena di sempre, in una dinamica analoga a quella che vediamo in Scozia. A un anno dalla sconfitta al referendum, gli indipendentisti di Edimburgo già si scalpitano: se gli euroscettici saranno battuti faranno esattamente lo stesso. Un brivido inutile che porta con sé la prospettiva di un costo enorme. Per Londra ma quel che più conta per tutti noi.

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