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Un'Europa immobile non salva l'Europa

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DOMANI IL VERTICE UE

Un'Europa immobile non salva l'Europa

Più si moltiplicano i fronti di crisi e più l'Europa si arrocca in stand-by. Il segnale è paradossale ma la non-azione, i temporeggiamenti più o meno mascherati e la resistenza passiva, inframmezzata da qualche provvedimento tampone e alcuni altolà più di forma che di sostanza, sembrano l'unica risposta concreta che i governi oggi sono in grado di elaborare insieme, a 18 come a 28.

Può sembrare assurdo affermarlo alla viglia dell'ennesimo vertice Ue che si riunirà domani e dopo a Bruxelles per tornare a discutere, a sole tre settimane dall'ultimo, di rifugiati, di Siria, di Russia (e forse di Brexit), cioè di emergenze vere, in grado di stravolgere il tranquillo tran tran dell'Unione. Richiederebbero decisionismo d'assalto, riforme urgenti e incisive, nuove politiche comuni e deleghe di sovranità in nome dei comuni interessi da difendere.

Invece tutto lascia credere che, contrariamente a programmi e attese, sia cominciato un “biennio bianco” di sostanziali attendismi, in politica come in economia. Aspettando le elezioni del 2017 in Francia e Germania. A meno che eventi esterni di impatto travolgente oltre ogni previsione non costringano il club a cambiare precipitosamente passo.
Non è questione di incoscienza ma di impotenza collettiva: tutti i governi, ormai anche quello della potentissima Angela Merkel, sono sempre più condizionati dalle crescenti pressioni interne, dalla Realpolitik nazionale. L'Europa vive dello spazio residuale che le viene concesso, una volta sottratti e accontentati 18 0 28 tra i più vari e spesso conflittuali interessi in partita. In definitiva, vive poco e di molto poco, che non è abbastanza per contare sul serio.
Avrebbe dovuto essere prima la primavera e poi l'autunno del rafforzamento della governance dell'eurozona. Sul tavolo il rapporto dei cinque presidenti e altre proposte alternative. Fondamentale per la stabilità della moneta unica, la sfida è uscita dai radar schiacciata da altre priorità, rifugiati in testa. Non c'è logica nella scelta che è semplicemente il sinonimo dell'impossibilità di fare altrimenti. Di impotenza, appunto.

Con le opinioni pubbliche in fermento, i partiti nazionalisti, xenofobi e anti-europei dovunque alla carica ormai anche in Germania, e i governi indeboliti, appare un'ambizione stralunata oggi un negoziato che implicasse la riforma dei Trattati Ue, nuove cessioni di sovranità per dar vita all'unione economica e politica, insieme a meccanismi redistributivi da finanziare con un adeguato bilancio comune, una vera mutualizzazione dei rischi bancari e debitori, un ministro del Tesoro e un parlamento dell'euro.

Nessuno osa, men che meno la Merkel, aprire un argomento che di sicuro farebbe esplodere alla luce del sole i mai sanati contrasti franco-tedeschi su governo, strutture e politiche dell'eurozona, le contrapposizioni nord-sud e quelle tra i Paesi dentro la moneta unica e quelli fuori. Con la Gran Bretagna di David Cameron, che incalza per rinegoziare i termini di adesione all'Ue e rivendica la modifica dei Trattati, equivarrebbe a farsi del male, esponendo il modello europeo al rischio deflagrazione invece che di maggiore integrazione. Quindi si parla d'altro, di altri altrettanto impellenti esercizi unitari, come la politica comune dell'asilo e della sicurezza, senza peraltro riuscire a concludere granché.
Questo tirare a campare mettendo le pezze ai problemi invece di provare a risolverli, perché nessun governo è disposto a rischiare possibili effetti boomerang in casa, non aiuta però la coesione né rafforza la partnership. Men che meno un solido rilancio dell'economia europea, che continua a brillare per i suoi ritardi rispetto alle altre grandi aree globali. «La ripresa resta modesta e fragile, le debolezze dell'eurozona sono insieme cicliche e strutturali. Per consolidare la crescita ci vogliono più riforme a livello nazionale ed europeo» ha avvertito ieri un rapporto di Bruxelles. Che però vede i suoi richiami alla disciplina del patto sempre più contestati nelle capitali.

La Spagna di Mariano Rajoy che andrà alle elezioni il 20 dicembre ha rispedito al mittente le critiche alla sua bozza di bilancio nazionale per il 2016 contestando le valutazioni abbastanza negative della Commissione Ue. La Francia di François Hollande continua a prendersela comoda sulle regole comuni. L'Italia di Matteo Renzi non cessa di alzare la voce invocando flessibilità e libertà di manovra su spese e investimenti.
Insomma, mentre moltiplica gli appelli formali all'unità come efficace vaccino anti-emergenze, l'Europa vive a ranghi sempre più sciolti nella logica dell'ognun per sé. Per motivi elettorali e non. Così lascia incancrenire i problemi, non per rischio calcolato ma per disordinata inedia collettiva. Gioco molto pericoloso con il cumulo di crisi che ha di fronte.

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