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Lectio magistralis della Prof.ssa Paola Severino in occasione dell'inaugurazione della Luiss School of Law

La presidente del Consiglio Scientifico LUISS School of Law, Paola Severino (Ansa)
La presidente del Consiglio Scientifico LUISS School of Law, Paola Severino (Ansa)

Sig. Presidente della Repubblica, Autorità, illustri ospiti, cari colleghi e studenti, sono particolarmente lieta di essere qui oggi ad aprire ufficialmente l'anno accademico della nostra School of Law.
Credo fermamente che nessuna esperienza nella vita di un giurista possa dare tanto entusiasmo e tanta rinnovata passione quanto l'insegnamento: è in questa delicata attività, che va vissuta con profondo senso di responsabilità, che si possono portare a fattor comune le tante esperienze professionali di una carriera, cercando di sintetizzarle per attualizzare messaggi, creare interesse, suscitare curiosità e trasmettere l'amore per il diritto.
Per questo la School of Law costituisce un luogo speciale: perché qui si costruisce l'opportunità, ancor più che nella fase della formazione universitaria, di creare eccellenza; quell'eccellenza per la quale l'Italia è famosa nel mondo e che va coltivata con dedizione ed entusiasmo.


Il compito che la nostra Università si è voluta assumere è, quindi, un compito alto e sfidante.
Alla luce di questi presupposti vorrei allora condividere con Voi una riflessione su un tema che è oramai da qualche anno oggetto di dibattito – il rapporto tra globalizzazione dei mercati e assetto delle regole –, ma che mi pare oggi, anche alla luce dell'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, di particolare attualità. È un tema che impone di interrogarsi sulle future linee di sviluppo di un ordinamento comune europeo e, direi specularmente, sul tipo di giuristi che si vuole contribuire a formare.
La globalizzazione dei mercati e dell'economia, quale fenomeno che per definizione favorisce la libertà di circolazione e di stabilimento di persone e di attività produttive, pone senza dubbio una questione di regole e di tipo di regole con le quali intendiamo disciplinare il fenomeno in questione.
La globalizzazione può infatti comportare una competizione tra ordinamenti nel senso che gli operatori economici possono scegliere l'ordinamento ad essi più favorevole; in poche parole, sono essi a scegliere il sistema di regole cui sottoporsi. Certo, anche questo meccanismo competitivo può condurre a processi di ravvicinamento tra le diverse legislazioni, ma attuati in modo indiretto: i singoli ordinamenti, preso atto delle scelte compiute dai Paesi ‘concorrenti', potranno essere indotti a rivedere la propria normativa in una direzione comune e magari più attrattiva per i destinatari. Questo meccanismo di avvicinamento comporta però il rischio di una strumentalizzazione utilitaristica, nel senso che può dar luogo a forme di concorrenza “sleale” tra Stati, volte a creare aree di impunità o di attrattività economica, poi utilizzate solo per eludere le conseguenze di legislazioni più severe e restrittive.
L'altra strada, e a mio avviso la strada “maestra” attraverso cui si può affrontare il fenomeno della globalizzazione, è quella appunto dell'armonizzazione delle regole. Anche in questo caso siamo di fronte ad un percorso di ravvicinamento tra le diverse legislazioni; esso si attua però non nell'“hortus clausus” dei singoli Stati, ma sulla base di una volontà comune, di una strategia condivisa: si potrebbe dire che attraverso questa via si sceglie di governare insieme la globalizzazione; non si è da essa indirizzati.

La realtà con cui ci si confronta è sotto gli occhi di tutti: accade frequentemente nelle transazioni commerciali internazionali, dove pure prima che in altri settori si sono gradualmente elaborati nuclei di regole comuni, che ci si trovi dinanzi ad aspetti di disciplina diversi oppure con una disomogenea applicazione delle regole. Così come in settori ancor più delicati, in quanto esposti al rischio di sanzioni penali, ci si misura con il tema, periodicamente ricorrente, e su cui tornerò più avanti, della corruzione internazionale, della responsabilità degli enti o, infine, dello svolgimento di attività di rappresentanza di interessi (mi riferisco al fenomeno del cosiddetto lobbying), tutti àmbiti in cui spesso non solo le regole differiscono tra i vari Stati, ma nei quali è diversa anche l'interpretazione delle regole.

Ovviamente, non si intende negare la possibilità che gli attori del sistema economico orientino le proprie scelte di investimento sulla base anche del funzionamento del sistema giustizia di un Paese, né si vuole mettere in radice in discussione la legittimità di una siffatta scelta. Sappiamo oramai bene, per averli studiati da anni, quali siano i costi che l'inefficienza della macchina giudiziaria nel suo complesso comporta sul terreno dello sviluppo economico e conosciamo altresì gli importanti sforzi compiuti dal nostro ordinamento per cercare di superare i problemi creati nel passato.

Un conto tuttavia sono i deficit competitivi, su questo versante, di un ordinamento; altra cosa, invece, i comportamenti “opportunistici” dettati dall'esistenza di regimi diversi nei vari sistemi giuridici; fenomeno, quest'ultimo, ancor più preoccupante quando viene in gioco il diritto penale, perché a essere messa in crisi è la possibilità stessa di contrasto a determinati fenomeni criminosi aventi per loro natura carattere transnazionale.
Si incrociano qui due esigenze: evitare per un verso, per le ragioni appena dette, che si operi una sorta di forum shopping, eliminando dunque il presupposto alla base di tali scelte; rimuovere, per altro verso, gli ostacoli nei quali sovente ci si imbatte in un ordinamento diverso dal proprio, sul fronte dell'applicazione delle regole.

Le condizioni per percorrere correttamente la strada che qui si è definita come la “via maestra”, passano attraverso tre snodi principali.
Il primo è lo snodo legislativo.
Il processo di integrazione europea e la sua capacità di resistenza anche a
fronte di battute d'arresto come quelle segnate alcuni anni addietro
dall'esito dei referendum in Francia e Olanda sul Trattato per l'adozione
di una Costituzione per l'Europa, dimostrano la vitalità del percorso di
ravvicinamento delle legislazioni tra gli Stati membri dell'Unione.
Il Trattato di Lisbona, con il superamento della divisione in Pilastri
dell'Unione, il rafforzamento del ruolo del Parlamento europeo nella
procedura di adozione degli atti normativi dell'Unione, il più stretto
rapporto di interazione tra quest'ultima Istituzione e i Parlamenti
nazionali, hanno segnato passi importanti verso un percorso di più spinta
armonizzazione delle regole.
La prospettiva di una unificazione normativa è ancora lontana, più
lontana, come avrò modo di dire a breve, in certi settori, ma l'aver elevato il tasso di democraticità dei procedimenti legislativi fa ben sperare per il futuro.
Non basta però questa leva: la globalizzazione richiede regole uniformi ma anche applicazione omogenea. E qui un ruolo centrale riveste il dialogo tra le Corti. Anche su questo versante non esiste, e probabilmente non è neppure auspicabile, una perfetta identità di criteri interpretativi, ma non vi è dubbio – e l'esperienza anche italiana di questi anni lo testimonia – che, oltre alla circolazione dei modelli normativi, è indispensabile anche la condivisione di un patrimonio giuridico comune che si formi attraverso un confronto aperto di posizioni tra le Alte Corti. Il seme è stato oramai gettato se è vero che la nostra Corte Costituzionale ha in anni ancora recenti dimostrato di voler attivare un canale di interlocuzione diretta con la Corte di Giustizia dell'Unione europea e che, sul versante della Corte EDU, non mancano casi in cui la Consulta non esita a richiamare a supporto della linea argomentativa sviluppata in talune pronunce, i precedenti della giurisprudenza convenzionale. Si tratta certo di un seme la cui crescita è ancora rallentata da momenti di stasi o, come accaduto di recente, da un confronto, anche vivace, circa la posizione che il Giudice interno deve tenere a fronte di indirizzi consolidati ovvero di precedenti isolati della Corte europea. La strada è, dunque, certamente quella del dialogo, ma in un contesto nel quale deve rimanere centrale il ruolo della Consulta di custode della nostra Carta costituzionale e dei principi fondamentali dell'ordinamento. Gli scenari aperti dalla recentissima pronuncia della Corte di giustizia nel caso Taricco in materia di prescrizione testimoniano del resto la problematicità che un sistema multilivello di tutela dei diritti può comportare.
Il terzo snodo fondamentale è rappresentato in questo scenario dal ruolo della dottrina. L'armonizzazione delle regole e il dialogo tra le Corti richiedono anche una posizione attiva del giurista teorico: spetta alla dottrina analizzare i modelli normativi che prendono forma a livello sovranazionale, metterne in risalto, ove occorra, i limiti ma anche contribuire a progettarne di nuovi e migliori. Spetta altresì alla scienza giuridica far sentire la propria voce sulle soluzioni interpretative adottate e anche qui proporre eventualmente schemi diversi e alternativi.

L'europeizzazione del diritto e della scienza richiede capacità di dialogo, rinuncia alle specificità delle singole tradizioni giuridiche, ma al contempo equilibrata critica e capacità di indicare le future linee di sviluppo. L'esperienza culminata alcuni anni addietro, volgendo lo sguardo al settore penale, nel Manifesto sulla politica criminale europea dimostra che un cammino comune può essere intrapreso e che può esistere una koinè.
Proprio sull'esperienza maturata nel settore penale vorrei adesso volgere l'attenzione; mi sembra un'esperienza importante perché, come tutti sappiamo, il diritto penale per sua natura ha da sempre avuto una proiezione esclusivamente interna.
Il diritto penale, quale braccio armato di uno Stato, non può che essere intriso di valutazioni politiche del legislatore storico: tra tutte le branche dell'ordinamento, per evidenti ragioni, esso è stato per lungo tempo una sorta di ‘giardino proibito' per il legislatore europeo.
Non sono da trascurare, naturalmente, le interazioni da tempo esistenti e studiate tra diritto penale e diritto comunitario (qui per noi penalisti è sufficiente pensare già agli studi di Pedrazzi e, più recentemente, di Giovanni Maria Flick); bisogna però avere a mente come non siano poi così remoti gli anni in cui si parlava ancora dell'espressione “diritto penale comunitario” come di un ossimoro.
A fronte dunque della conquista di larghi spazi ad opera del legislatore europeo in altri settori, il diritto penale rimaneva ancora, per così dire, alla finestra. Mentre la lex mercatoria già si imponeva come un dato di realtà, l'idea di una competenza penale ‘comune' rappresentava più che altro materia di dibattito in sede scientifica.
Certo, qualcosa già si muoveva, se è vero che negli anni duemila ha preso corpo quell'iniziativa del Corpus iuris, da molti salutata come la vera base di un futuro diritto penale comune.
Le cose oggi sono però radicalmente cambiate e dobbiamo prendere atto che già adesso, ma sempre più in futuro, le ‘regole', anche sul versante penale, si formeranno su input, su direttive, su confronti internazionali. Per dare corpo a queste affermazioni, appare opportuno compiere una sorta di percorso di ‘avvicinamento' alla situazione attuale, in modo poi da poter gettare lo sguardo oltre l'esistente.

Inizierò pertanto da alcuni esempi che hanno radici nel passato ma che
oggi rivestono sicura rilevanza e sono destinati a future elaborazioni
ulteriori.
Si tratta inoltre di esempi che racchiudono in sé due dei fili conduttori del
ragionamento fin qui elaborato:
- sono vicende normative in cui è chiara l'intersezione tra diritto ed economia;
- sono casi in cui l'esigenza di regole armonizzate è fortemente avvertita.
I settori in questione sono quelli della corruzione, del contrasto al riciclaggio e, infine, quello della responsabilità degli enti.
Iniziamo dalla corruzione: l'ultima stagione di riforma ben mette in risalto lo stretto legame tra corruzione ed economia.
A livello interno è stata anche la presa d'atto dei costi – insopportabili – della corruzione a rendere nell'opinione pubblica non più rinviabile un inasprimento della risposta sanzionatoria.

A livello internazionale parimenti l'esigenza/opportunità di una lotta comune alla corruzione internazionale (oltre al rafforzamento della risposta interna) hanno la loro radice nella consapevolezza che la corruzione incide certo sui classici beni del buon andamento e dell'imparzialità della pubblica amministrazione, ma altera altresì la leale concorrenza tra imprese, lede l'economia pubblica, mina – come ben ricorda il preambolo della Convenzione di Strasburgo del 1999 – la stabilità stessa delle istituzioni democratiche.
Così pure il riciclaggio: è oramai pluridecennale la storia del contrasto a
livello sovranazionale del fenomeno del riciclaggio.
Anche qui si saldano una pluralità di interessi: lotta alla criminalità
organizzata – già Falcone ammoniva: ‘Follow the money' –; repressione
delle condotte che, portando alla ‘ripulitura' di capitali illeciti, modificano
le condizioni di regolare funzionamento del mercato; rafforzamento in
genere delle strategie di contrasto dei reati presupposto.
Anche qui un cammino lungo, avviato in sede sovranazionale, e che ha
visto nel tempo ampliarsi l'ambito applicativo della fattispecie di riciclaggio, estendersi le misure di contrasto alla fase preventiva – mi riferisco ai c.d. obblighi ‘antiriciclaggio' –, sino ad arrivare alla – dibattuta – introduzione della figura dell'autoriciclaggio.
Infine, il capitolo della responsabilità degli enti: anche qui l'input è di fonte sovranazionale e la risposta del legislatore interno è stato l'oramai celeberrimo d.lgs. 231 del 2001; ed anche in questo caso l'esperienza di altri ordinamenti e gli impulsi di matrice esterna hanno consentito di superare il totem del principio di personalità della responsabilità penale ex art. 27, comma 3 Cost., e imporre agli studiosi e al legislatore di pensare e costruire un modello di responsabilità dell'ente conforme ai dettami della Costituzione ma idoneo al tempo stesso a configurare uno schema di responsabilità dell'ente fortemente innovativo, ma coerente con i principi generali della materia penale. Anche in questo caso, certo, il volano è stato di matrice internazionale ed ‘economica', considerando che la previsione di una responsabilità diretta degli enti per i reati commessi a loro vantaggio risponde all'esigenza di favorire una leale concorrenza tra imprese, attraverso l'adozione di regole di governance volte a prevenire il pericolo che nell'impresa si radichino aree a rischio di reato.
L'idea di regole armonizzate non è nuova, dunque, neppure nel panorama
penalistico,concentrandosiiproblemipiuttostosull'effettivo recepimento delle stesse e sul loro grado di vincolatività.
Da questo angolo visuale – e arrivo al secondo punto sopra enunciato – è sul versante del diritto penale dell'Unione – della creazione di uno spazio comune di sicurezza, libertà e giustizia – che si sono compiuti i passi più importanti.
Il Trattato di Lisbona ha segnato sul terreno della cooperazione giudiziaria e dell'armonizzazione del diritto penale sostanziale un passaggio epocale: nelle materie indicate nel paragrafo 83 del Trattato sul funzionamento dell'Unione siamo alle prese, per la prima volta, con una competenza penale piena dell'Unione stessa; competenza penale che si attua attraverso direttive – con i tutti i riflessi in termini di ‘vincolatività' per gli Stati membri – e che oggi riguarda tanto l'an della punibilità quanto il quomodo punire.

È a livello UE che nei settori in questione si formano le scelte di politica
criminale, residuando poi al legislatore interno un limitato spazio di
manovra – più che altro di natura tecnica –in sede di trasposizione
interna.
Con riguardo alle materie di cui al paragrafo 83, non siamo certo cin
presenza di un processo di unificazione normativa, ma sicuramente siamo
sulla via di un processo di armonizzazione “spinta” che impone oggi ai
Parlamenti e Governi nazionali di partecipare con attenzione e capacità al
processo di formazione degli atti dell'Unione e di far sentire in quella sede
la loro voce secondo le modalità previste nei Trattati e nella nostra legge
di adattamento del diritto interno al diritto di fonte UE (l. n. 234 del
2012).
Quali le sfide che questa nuova realtà normativa pone?
Direi che gli scenari che sino a non moltissimi anni addietro erano
avveniristici, oggi rappresentano una realtà con cui fare i conti: la politica
criminale è anche europea e lo sarà sempre di più. E se ciò è accaduto in
quello che non a caso ho definito prima un ‘giardino proibito', un'area
normativa di solito meno permeabile alle spinte all'integrazione, non credo debba aggiungersi altro circa la stagione che attraversano i vari
settori dell'ordinamento giuridico.
Quanto già avvenuto, impone però due ulteriori, decisivi passi: è questa la
nuova frontiera evocata negli ultimi anni da attenti studiosi.
La nascita di una vera cultura giuridica europea e lo svilupparsi di un
dibattito pubblico tra gli Stati dell'Unione. Questa esigenza si avverte
ovviamente in primo luogo, nel campo penalistico. Opzioni così delicate,
volte a decidere ‘come incriminare' o, prima ancora, ‘se incriminare' ,
esigono un confronto pubblico e una consapevolezza comune.
Un buon diritto penale – o almeno quello che auspicheremmo – si deve
nutrire di una democrazia ‘discorsiva', e d'altronde la scelta di affidare le
linee di politica criminale ai Parlamenti nazionali ed europeo risiede
proprio in ciò: avere una sfera pubblica di discussione; assistere al
confronto tra maggioranza e opposizione, in sede nazionale e tra istanze
di giustizia tra gli stati dell'Unione.
Mi sembra peraltro che l'insegnamento tratto dal diritto penale non
rimanga confinato in questo ambito: le vicende di questi giorni sono lì a
dimostrare quanto siano necessari un popolo europeo e un dibattito pubblico europeo, le cui comuni radici potranno germogliare solo su un terreno giuridico comune, o quanto meno armonico.
Per concludere, vorrei quindi rispondere alla domanda, al tema da cui siamo partiti: che giuristi vogliamo e dobbiamo essere.
Aperti ai contributi degli altri saperi, disponibili al confronto e alla integrazione con i sistemi e le esperienze altrui, consapevoli che le scelte regolatorie e interpretative che assumeremo nell'esercizio delle nostre professioni generano effetti sociali da non trascurare.
Per questo dobbiamo essere rigorosi, metodici, talvolta severi, dotati di quell'etica della professione e della cittadinanza che è, innanzitutto, responsabilità e rispetto per il diritto e i diritti.
È a questi valori che vorremmo si ispirassero i giovani che frequenteranno la School of Law che oggi inauguriamo, per portarli con sé, farne un modello di vita professionale, diffonderli in un mondo globalizzato e bisognoso di regole comuni.

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