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Le armi spuntate delle banche centrali

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L’ANALISI

Le armi spuntate delle banche centrali

la Bce ha annunciato giovedì scorso che presto aumenterà le munizioni al suo «bazooka» monetario. La Banca centrale cinese il giorno dopo ha tagliato i tassi per la sesta volta in un anno.
Oggi la Fed dovrebbe mantenere invariato il costo del denaro e, forse, allontanare ulteriormente il suo rialzo. Venerdì la Bank of Japan potrebbe - così prevedono gli economisti di Commerzbank - aumentare il quantitative easing dagli attuali 80mila miliardi di yen l’anno a 100mila miliardi. E anche la banca centrale svedese dovrebbe in questi giorni assumere un atteggiamento ancor più espansivo.
In sole due settimane, insomma, ben 5 banche centrali potrebbero lanciare messaggi espansivi. Due l’hanno già fatto. Una, quella cinese, ha anzi già agito. Non c’è dunque da stupirsi se, in questo contesto, i CTz abbiano rendimenti sotto zero. L’obiettivo delle banche centrali è di far ripartire l’economia e una sana inflazione. Fino ad oggi, però, allo sforzo così poderoso ha corrisposto un risultato minimo: l’inflazione resta globalmente bassa (anche al netto dei prezzi energetici), il mercato del lavoro si mantiene squilibrato con salari bassi (anche nei Paesi dove la disoccupazione è bassa come Usa e Germania) e la crescita economica mondiale rallenta.

Sui mercati finanziari si inizia dunque a dubitare dell’efficacia di questi poderosi sforzi da parte delle banche centrali. Nessuno nega che senza una politica monetaria globale così espansiva oggi la situazione sarebbe molto peggiore, ma tanti iniziano a pensare che ci sia una eccessiva sproporzione tra lo sforzo monetario e il risultato economico raggiunto. Dal 2009 le banche centrali del mondo hanno infatti tagliato i tassi 626 volte e hanno stampato molte migliaia di miliardi di dollari, ma oggi sono ancora costrette a aumentare lo sforzo. Come se non bastasse mai.
Ecco perché sul mercato inizia a farsi largo la sensazione che crescita, inflazione e lavoro fatichino a riprendersi anche per motivi strutturali, non solo congiunturali. Lo pensa Antonio Cesarano, economista di Mps Capital Market: «Il quantitative easing è un tentativo di rimettere in moto il motore, pur sapendo che qualcosa di strutturale è cambiato». Lo scrive anche Albero Gallo, economista di Rbs: «Se il mercato del lavoro fiacco, i salari polarizzati e la conseguente bassa inflazione sono strutturali, allora gli stimoli ciclici non possono risolvere i problemi». Insomma: se i nodi economici che affliggono il mondo non sono solo legati alla congiuntura ma a fenomeni molto più profondi come la demografia, la globalizzazione e la digitalizzazione, allora non è stampando moneta che si mettono a posto le cose. Magari si evita che peggiorino. Ma senza una efficace politica economica da parte dei Governi, senza uno sforzo strutturale maggiore di quello attuale, non si raggiungono i risultati.

Basti pensare all’effetto della demografia: stima Moody’s che nei prossimi 15 anni la popolazione mondiale in età lavorativa sarà la metà rispetto a quella dei 15 anni passati. Questo non può che rappresentare un freno strutturale sulla crescita economica e sull’inflazione, dato che una popolazione più vecchia consuma meno e produce meno. Si pensi anche all’effetto della digitalizzazione: calcola Morgan Stanley che in un arco di 10-20 anni il 50% dei lavori potrebbe essere a rischio perché sostituiti da computer. Chi lavora negli uffici crediti, nelle reception e nel settore para-legale rischia di essere sostituito da un robot. È vero che l’economia digitale crea lavori nuovi, ma forse non abbastanza da compensare quelli persi. «Una disoccupazione tecnica potrebbe diventare più diffusa rispetto al passato», scrive Morgan Stanley.
Questi imprevedibili cambiamenti epocali potrebbero insomma modificare il volto all’economia mondiale e potrebbero rendere strutturalmente vani i super-sforzi delle banche centrali. Il rischio è che combattano contro un nemico diverso dal passato con armi che diventano meno efficaci, creando bolle sui mercati ma modesti risultati sull’economia reale. Calcola David Riche di Indipendent Strategy che dall’inizio della crisi le aziende in Borsa abbiano aumentato molto più il rapporto tra prezzo e utili (P/e) che gli utili stessi: a Wall Street i profitti sono aumentati del 52,1% ma i p/e dell’82,7%; in Europa sono calati del 14,9% ma i p/e sono saliti del 114,7%; in Giappone gli utili sono cresciuti del 39,1% ma i p/e del 107,7%. Ennesimo segnale che la liquidità creata è rimasta lì: sui mercati.

m.longo@ilsole24ore.com

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