La banca centrale americana (Fed) continua ad essere un faro spento, anche per le pressioni dei banchieri e della politica. Tassi di interesse più alti e regole bancarie più basse: è questa la normalità a cui la finanza internazionale vorrebbe tornare, ma una Fed incerta non dà garanzie né sul primo né sul secondo fronte. Da qui lacrime e doglianze dei banchieri, sempre più frequenti e copiose. È vero che una Fed opaca è un danno per l’economia, ma per ragioni diverse da quelle che interessano i banchieri. I rischi nascono dal fatto che regole monetarie e bancarie sono assenti, o deboli, e non dal fatto che il ritorno alla normalità gradita alle grandi banche sia posticipato. Ed anche le contrapposizioni tra repubblicani e democratici contano.
La Fed continua a essere opaca, mentre sono continui i segnali di una crescente insofferenza della grande finanza – soprattutto, ma non solo, americana – rispetto all’incertezza che caratterizza il disegno della politica monetaria, ma anche delle regole bancarie, nel Paese che ancora guida nei fatti la dinamica mondiale dei tassi di interesse e dei mercati. Due sono i fatti in cui tale insofferenza va contestualizzata.
Da un lato le grandi banche americane non stanno mostrando in generale conti economici entusiasmanti. Valori in Borsa, margini di profitto e volumi di attività non appaiono brillare. Il ristagno dei conti bancari viene attribuito a due grandi imputati: l’appiattimento dei tassi di interesse e l’inasprimento delle regole bancarie. Ed è inevitabile che i fari si accendano soprattutto sulla Fed, che rappresenta il soggetto unico delle scelte di politica monetaria, ed apicale per quelle relative alla politica bancaria.
Per quel che riguarda la politica monetaria, la perdurante assenza di una regola di condotta continua a rappresentare un acceleratore di incertezza e di cattiva volatilità nei mercati finanziari. Alle grandi banche sembra dispiacere che il rialzo dei tassi di interesse appaia ancora incerto. Il lamento delle banche non è privo di fondamento.
L’analisi empirica più recente mostra che alla lunga tassi bassi e piatti sono correlati a profitti bancari più bassi. Negli ultimi giorni poi l’incertezza è stata accentuata dalla crescente divergenza che viene registrata nelle dichiarazioni pubbliche degli esponenti della Fed. La confusione comunicativa è un peccato mortale per le banche centrali, soprattutto da parte una banca centrale senza regole di condotta, come è oggi la Fed. Il problema infatti non è quello che sembra indispettire la finanza, cioè l’incertezza sulla fine dei tassi di interesse schiacciati sullo zero, quanto piuttosto l’assenza perdurante di una disciplina monetaria. La presenza di una regola monetaria è condizione necessaria, ancorché non sufficiente, di maggiore stabilità. Soprattutto nelle fasi congiunturali, come l’attuale, in cui altre sorgenti di instabilità sono attive, sia di natura domestica che internazionale.
L’argomento per cui, in presenza di una incertezza oramai strutturale, è meglio non legarsi le mani, è di una debolezza inconsistente. Anche perché l’analisi economica offre una pluralità di possibili regole di condotta monetaria, proprio per contrastare l’incertezza. Ce n’è per tutti i gusti. Esiste la regola che ha dominato la strategia della politica monetaria nel ventennio che ha preceduto la Grande Crisi: è la regola di stabilizzazione congiunturale, per cui l’azione monetaria guarda all’andamento da un lato dell’inflazione e dall’altro della crescita economica, per smorzarne i picchi negativi e positivi. Ma c’è anche la regola di stabilizzazione del reddito nominale, che si calibra invece sull’andamento complessivo del prodotto di un Paese, in modo da consentire maggiori gradi di libertà alla variazione di tassi e grandezze monetarie. E poi ancora c’è la regola che, al contrario, vede le grandezze macroeconomiche, fortemente guidate dalle aspettative, dipendere completamente dalle scelte monetarie, per cui ad esempio una ripresa dell’inflazione potrebbe essere legata a un innalzamento dei tassi di interesse. Infine: ciascuna regola può essere adottata dalle “colombe” come dai “falchi”, purché la scelta venga opportunamente spiegata e giustificata. Quella che è ingiustificabile è la prolungata assenza di una regola monetaria.
Anche se è spiegabile: la Fed, invece, continua imperterrita nella politica dell’inerzia monetaria, il cui motore è quello dell’avversione al rischio del banchiere centrale. La variabile da tutelare non è né il reddito né l’inflazione, ma l’assenza di rischi reputazionali, quindi la stabilità del burocrate. Soprattutto quando si avvicinano le elezioni presidenziali, con i repubblicani che premono per modifiche legislative volte proprio a ridurre la discrezionalità della Fed. Per cui parlare di regole monetarie è “da repubblicani”, mentre difendere le mani slegate della Fed è “da democratici”. L’analisi economica non c’entra nulla, ma non è una novità.
La politicizzazione del tema delle regole caratterizza anche il versante della politica bancaria. Pure qui le grandi banche sono molto nervose; lamentano un eccesso di regole, effettivo e prospettico. La finanza vorrebbe tornare alla normalità ante crisi: le cosiddette regole amiche del mercato, cioè controlli prudenziali. L’approccio alla vigilanza esclusivamente prudenziale ha evidentemente fallito; ritornare a considerare regole e controlli che impediscano l’assunzione eccessiva di rischio – la regolamentazione strutturale - è stato inevitabile. Nonostante ciò, finora il legislatore – negli Stati Uniti come in Europa – ha enunciato principi, più che attuare riforme efficaci. Ma enunciare principi è comunque una minaccia, per chi – come la grande finanza - rivuole la restaurazione del “prudenziale”, al massimo rafforzato. Da qui i lamenti e le lacrime anche sul lato della politica bancaria, che è descritta come eccessivamente rigida e penalizzante. Da qui le pressioni politiche, soprattutto di parte repubblicana, nel rivedere al ribasso le regole bancarie. Hillary Clinton si è schierata dal lato opposto, contro gli eccessi di Wall Street. Il termometro della politica monetaria e bancaria è già in pieno surriscaldamento da campagna elettorale.
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