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Marino e il «baco» della legge sui sindaci

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POLITICA 2.0

Marino e il «baco» della legge sui sindaci

Al di là di Roma, Marino rappresenta il primo “baco” nella legge elettorale sui sindaci. L’errore che in informatica causa un effetto imprevisto si sta ora producendo in questo meccanismo di voto. E ha mandato in tilt il Pd.

Il caso di Ignazio Marino è un inedito nella storia della legge elettorale dei sindaci e potrebbe diventare anche un precedente. Perché in una fase in cui il peso dei partiti è leggero, quel meccanismo per eleggere il primo cittadino sollecita un tipo di rapporto diretto con gli elettori che può azzerare e scavalcare i partiti. Può rendere, cioè, il ruolo delle forze politiche completamente ininfluente nel governo della città e nelle scelte anche drammatiche come quelle delle dimissioni. Come abbiamo visto nelle ultime ore, Marino ha chiamato a sé la piazza, ha evocato un consenso popolare e in virtù di questo suo mandato “diretto” ha ieri ritirato le dimissioni da sindaco. Mandando in tilt il Pd che ora per liberarsene è costretto a sfiduciarlo insieme alle opposizioni.

È vero, si può dire che la personalità del sindaco di Roma non è proprio tra le più lineari, ci sta anche la psicologia particolare del personaggio, ma è anche vero che si deve iniziare a riflettere su come questa legge elettorale possa funzionare nell’epoca dei partiti “deboli” e sempre più evanescenti. Certamente quelle regole sollecitano il personalismo e il plebiscitarismo e sicuramente minacciano molto da vicino il ruolo e la funzione dei partiti. Basta vedere come è ridotto il Pd romano e il suo commissario Matteo Orfini dopo questa vicenda. Praticamente non sono riusciti a imporre una via indolore per il partito ma hanno dovuto subire quella di Marino che è la più dolorosa in termini di danno di immagine e reputazione. Insomma, se il primo cittadino della Capitale ha cercato la vendetta sul Partito democratico sicuramente questa legge elettorale gliel’ha servita su un piatto d’argento.

A questo punto non si tratta - certo - di cambiare le regole che hanno offerto all’Italia una stagione amministrativa spesso di buoni sindaci e buoni amministrazioni e che hanno creato anche una classe dirigente arrivata fino a Palazzo Chigi – vedi Matteo Renzi – ma di cominciare a riflettere sul “baco”. Sul fatto, cioè, che la selezione dei candidati può produrre un tilt nei partiti, renderli inutili anzi farli diventare un inciampo rispetto alle ambizioni e al liderismo di personalità locali. Basta guardare l’ultima stagione dei sindaci per trovare tratti di plebiscitarismo, da Luigi De Magistris a Napoli fino a Ignazio Marino ma anche alle ultime elezioni regionali si sono imposte figure come Vincenzo De Luca o Michele Emiliano che di certo non hanno legami forti con il Pd ma piuttosto con un bacino elettorale su cui hanno messo il loro brand personale.

A enfatizzare ancora di più questa disintermediazione si aggiunge il meccanismo delle primarie. Perché anche il meccanismo dei gazebo ha creato un ribellismo rispetto alle strutture, ha fatto nascere candidature spontanee fuori dal circuito delle forze politiche e, una volta eletti, i sindaci o Governatori hanno interpretato senza alcuna sottomissione il vincolo con i partiti. Il dilemma, dopo il caso Marino, sta proprio in questa scelta: se il Pd vuole puntellare e rafforzare il ruolo del partito o lasciarsi andare a una nuova stagione. In cui la spunteranno e conteranno più i Marino che gli Orfini. Come si è visto dal duello della Capitale, il ruolo del commissario del partito è stato totalmente subalterno a Marino. Quest’estate, Orfini l’ha difeso perfino contro Renzi e ha imposto che il sindaco restasse, ora che ha smesso di difenderlo non è riuscito a ottenere le dimissioni ma uno scontro plateale in cui il vero perdente è il Pd romano.

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