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Ora il test per il futuro

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IL «MARCHIO ITALIA»

Ora il test per il futuro

  • –di Paolo Bricco

C’è il Made in Italy. E, adesso, c’è anche il Marchio Italia. La maledizione storica italiana, una sorta di regolarità di lungo periodo che si è esacerbata nella perdurante transizione iniziata a partire dagli anni Novanta, è sempre stata costituita da una infelicissima scissione.
Da un lato il sistema industriale, sintetizzato nella formula del Made in Italy quale miscela di processi di fabbrica e di bellezza dei prodotti, artigianalità e capacità di intuire i bisogni insieme più comuni e più sofisticati dell’uomo contemporaneo.
Dall’altro lato un Sistema Paese spesso incomprensibile nelle sue patologie e segnato dalle clientele e dalle inefficienze, da una pubblica amministrazione barocca e da una giustizia civile lenta e dunque ingiusta, animato da una sorta di cupio dissolvi che alla fine ha sempre reso maledettamente complicato fare impresa. Il tutto ai limiti della schizofrenia, vissuta ora con distacco ora con fastidio, ora con collusione ora con ironia sarcastica dagli italiani stessi. Nel caso dell’Expo, grazie a un successo segnato da non poche difficoltà ma alla fine chiaro, questa scissione – come per primi hanno notato gli economisti della Bocconi – sembra essersi ricomposta.

L’elaborazione e l’esecuzione di un progetto tanto complesso e articolato – nonostante la (inopportuna) litigiosità delle classi dirigenti locali successiva all’assegnazione a Milano del compito di ospitarlo, la (evitabile) corsa contro il tempo e i (circoscritti) episodi di malaffare – sono stati realizzati con un ordine e una efficacia validi per mostrare la capacità organizzativa del Paese. Un ordine e una efficacia riconosciuti non solo dal numero di visitatori, ma anche dalla presenza a Milano di innumerevoli esponenti delle élite che governano lo scenario internazionale.
A freddo, la reale entità del bilancio di Expo 2015 – i costi finali, la profittabilità o meno dell’evento, le spese per la gestione del post – sarà chiara soltanto fra qualche tempo.
A caldo, il bilancio della reputazione internazionale del Paese appare positivo: per una volta si è imposto un Marchio Italia che consolida e potenzia il nostro tessuto industriale (nel caso specifico l’agroalimentare, ma non solo) e la nostra agricoltura, il sistema della conoscenza (necessario, in un evento multidimensionale e a cifra culturale sia pop sia alta come l’Expo) e il terziario avanzato (la manifestazione è stata vetrina per eccellenza) nello scenario di una globalizzazione in cui l’Expo ha costituito uno degli snodi nevralgici degli ultimi mesi.

Non è poca cosa. Alcuni sistemi economici – la Germania e il Giappone nella manifattura e gli Stati Uniti e la Gran Bretagna nel terziario – hanno rappresentato bene la felice unione fra imprese e appartenenza nazionale, con i clienti stranieri – nella doppia veste di consumatori e di cittadini del mondo – disposti a pagare un sovrapprezzo pur di avere l’automobile tedesca (appunto, tedesca), il televisore giapponese (appunto, giapponese) e i servizi finanziari concepiti a Wall Street o nella City.
Dagli anni del Boom, il valore delle merci italiane è sempre stato limitato e circoscritto dal pur potente codice del Made in Italy. Mai dal Marchio Italia. Quasi che i laboratori artigianali e le fabbriche italiane preesistessero a un’Italia talvolta vissuta con disagio dagli stessi italiani e – magari non a torto – guardata con simpatica sufficienza dagli osservatori stranieri.
Questa volta, invece, le cose sembrano essere cambiate. L’auspicio è che non si tratti soltanto di un fortuito accidente della Storia. Ma che diventi un metodo. Made in Italy, più Marchio Italia.

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