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Bagheria si rivolta contro il pizzo

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lotta alla mafia

Bagheria si rivolta contro il pizzo

Ha pagato per trent’anni, schiavo dei ricatti e delle minacce dei boss. C’era ancora la lira, erano gli anni Ottanta quando cominciò a pagare il pizzo e certo il clima era completamente diverso da quello di oggi. Con la mafia non si discuteva: si obbediva e basta.

Lui, Domenico Toia, era un imprenditore edile di Bagheria (Palermo) e ha pagato, in silenzio, tre milioni al mese alla famiglia del reggente del mandamento che era in carcere e ha anche versato a Cosa Nostra significative percentuali dell’importo degli appalti aggiudicati mentre i politici facevano pressioni per ottenere vantaggi. Pagamenti continui fino a dissanguarsi: tre milioni al mese quando c’era ancora la lira. Lo ha dovuto fare lui e dopo la sua morte il figlio che porta il suo nome. Sembrava una cosa scontata nel pesantissimo mandamento mafioso della provincia di Palermo che fu rifugio dorato del latitante Bernardo Provenzano e che è stato luogo di latitanza anche per Matteo Messina Denaro. La piovra mafiosa gli ha succhiato il sangue portando Toia al fallimento: prima la chiusura dell’azienda, poi la vendita dell’abitazione per far fronte alle richieste estorsive e infine la richiesta da parte dei boss di due milioni di euro per uscire da una società che, hanno raccontato i pentiti, era soltanto dell’imprenditore. Lui, Toia junior, è uno dei 36 imprenditori che hanno denunciato e detto di no alla mafia e al racket. Una ribellione che fa dire al presidente del Consiglio Matteo Renzi su Twitter: «Grazie al coraggio di chi rifiuta ricatti, grazie a Carabinieri e inquirenti. Bagheria non è cosa loro».

Il sistema della mafia bagherese era scientifico. Pagavano “poco” ma pagavano tutti: supermarket, attività all’ingrosso di frutta e verdura e di pesce, bar, sale giochi, centri scommesse, imprese edili. Sono una cinquantina le estorsioni documentate. E le denunce circostanziate degli imprenditori sono alla base dell’operazione «Reset 2» coordinata dalla Procura antimafia di Palermo guidata da Franco Lo Voi e condotta ieri dai carabinieri che hanno eseguito 22 ordinanze di custodia cautelare in carcere: i soggetti (alcuni già detenuti) sono quasi tutti pezzi da novanta dell'organizzazione mafiosa del palermitano come i Mineo, gli Scaduto, Eucaliptus, Flamia. Boss che una volta finiti in carcere venivano sostituiti da altri in quella che qualcuno ha definito una sorta di staffetta: «Quando gli esattori vengono arrestati – dice il procuratore aggiunto di Palermo Leonardo Agueci – subentrano altri che poi finiscono in cella, in un alternarsi continuo». E forse nemmeno gli stessi boss, abituati a trovare vittime silenziose e accondiscendenti si aspettavano tante denunce e ammissioni con una forza paragonabile, visto il territorio, a una vera e propria ribellione di massa. «Vale la pena sottolineare la valenza organizzativa e la strategia operativa sul filone delle estorsioni e le pressioni che Cosa nostra fa sul tessuto imprenditoriale della provincia – dice il comandante provinciale dei carabinieri Giuseppe de Riggi –. Un filone su cui intendiamo proseguire anche grazie alla collaborazione con le associazioni antiracket e degli imprenditori». E il procuratore di Palermo aggiunge: «Ci sono occasioni, come quella odierna, in cui è necessario presentare all’opinione pubblica i risultati di alcune indagini, senza ovviamente emettere alcun giudizio. È necessario presentare i risultati soprattutto quando si parla di mafia e in un territorio come quello di Bagheria, che in passato ha visto operare soggetti di primo piano per garantire la latitanza di Bernardo Provenzano. È necessario rendere noti i risultati di queste indagini quando ci si confronta con la mafia che continua a soggiogare l'economia, il territorio, gli imprenditori. E quando quasi quaranta imprenditori decidono di collaborare con lo Stato ammettendo o denunciando l’estorsione». Una vittoria dello Stato e degli imprenditori onesti, sottolinea il ministro dell’Interno Angelino Alfano: «La gente – dice –, gli imprenditori onesti, quella stragrande maggioranza di persone che vede nella mafia la fine di ogni possibilità di riscatto e di sviluppo, è scesa in campo con più determinazione e non ha avuto paura di farlo, perché ha fiducia nelle istituzioni e crede convintamente nella legalità». Dello stesso tenore il commento del presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi «Va sottolineata – dice –la scelta coraggiosa di tanti imprenditori che hanno deciso di rompere il muro dell’omertà».

Di fatto questi arresti dimostrano la vitalità del movimento antiracket in luoghi da sempre controllati militarmente da Cosa Nostra. Come sottolineano le associazioni Addiopizzo e Libero Futuro, che hanno dato supporto ad alcuni imprenditori che hanno denunciato e che possono vantare un bilancio di tutto rispetto: dal 2008 a oggi hanno ricevuto 300 richieste di aiuto da parte degli imprenditori e 150 di questi hanno avuto esito processuale ma «i numeri di Bagheria pesano doppio» dice Enrico Colajanni, presidente di Libero Futuro. E il presidente di Confindustria Palermo Alessandro Albanese, un pezzo di quella Confindustria siciliana guidata da Antonello Montante che da anni continua a sostenere gli imprenditori che vogliono denunciare, accompagnandoli se è il caso anche dai carabinieri, dice: «La rivolta delle imprese è importantissima. Confindustria è compatta su questa battaglia e a fianco di chi si ribella. Pagare non paga, non conviene: bisogna denunciare tutto un minuto dopo la richiesta estorsiva».

E sul tema, ovviamente su Twitter e sul suo blog, interviene persino Beppe Grillo: «Un abbraccio ai 36 imprenditori che si sono ribellati: siamo con voi! Manda un messaggio di sostegno alla loro iniziativa con #BagheriaOnesta su Twitter. L’onestà sta tornando di moda!».