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La Libia è il banco di prova dell’Italia

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a difesa del compromesso

La Libia è il banco di prova dell’Italia

Il 2015 sarà forse ricordato come l'anno in cui un governo italiano prese in considerazione l'opportunità di cambiare un pilastro della politica estera e di difesa nazionale: da una tradizionale presenza attiva ma defilata nelle retrovie dei conflitti sempre più frequenti, alla partecipazione diretta ai combattimenti. Era accaduto una sola volta dalla fine della II guerra mondiale, nel 1990 durante la liberazione del Kuwait, per un breve periodo e con forze aeree molto limitate.

Sembra ormai accertato che l'Italia stia seriamente valutando la partecipazione ai bombardamenti aerei in Iraq, contro l'Isis. Ma il nostro vero banco di prova è la Libia dove, oltre alla presenza di forze del califfato, i pericoli, le opportunità e il nostro interesse nazionale sono più chiaramente definibili di quanto non lo siano più a Est, nel Levante. A febbraio l'annuncio del ministro degli Esteri di un'Italia pronta a combattere e la quantificazione degli uomini necessari fatta dalla ministra della Difesa, furono un incidente. Ma anche un modo più o meno involontario di tastare il terreno.

E ora le accuse del governo di Tobruk - più esattamente del generale Haftar - di sconfinamento delle tre navi militari italiane. Fino a prova contraria vale la nettissima smentita della ministra Pinotti. Ed è piuttosto evidente il tentativo di Khalifa Haftar di sollevare un po' di polvere per non perdere il controllo delle sue truppe durante il negoziato di pace e nel suo eventuale dopo. Ma non sarebbe così sorprendente né scandaloso scoprire che la Marina presidi saltuariamente le acque di un paese in preda all'anarchia. Un paese dal quale lo stesso governo di Tobruk, nostro alleato, lancia allarmi di solito eccessivi sulla minaccia del jihadismo pronto a bivaccare in piazza San Pietro.

Tuttavia, con o senza l'ex generale di Gheddafi, le nostre navi, il flusso dei migranti dalle coste libiche e la minaccia del califfato, un intervento militare italiano è implicito nello stesso negoziato sotto l'ombrello dell'Onu e che ora sta conducendo Bernardino Leon. Non accadrà molto presto. L'annuncio fatto all'inizio di ottobre da Leon, è stato più carico di speranza, di natura ottimistica, che di ragione. Ma tutti si augurano che il compromesso fra il governo di Tripoli, quello di Tobruk, le milizie di Misurata, Bengasi e di tutti gli altri feudi dei signori locali della guerra, laici e islamisti, venga raggiunto il più presto possibile.

A quel punto l'Italia non potrà tirarsi indietro dal partecipare - o anche guidare con una forza militare adeguata ai suoi interessi in gioco - alla difesa del compromesso. Tutti i processi di pace comportano il rischio che per la loro difesa debbano essere usati strumenti di guerra. Questa pace non farà eccezione: se raggiunta, sarà una delle più difficili da preservare. E' decisivo lo stretto contatto fra Italia ed Egitto: sempre che il presidente al Sisi decida di essere definitivamente parte della soluzione e non del problema libico. L'ambizione egiziana di tornare ad essere la potenza regionale passa anche da Tripoli. Ma sarebbe utile che intanto la politica e l'opinione pubblica italiane incominciassero a chiedersi quanto siamo pronti a rischiare per una pace in Libia.

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