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Perché Brexit è un pericolo per l’Europa

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londra e la ue

Perché Brexit è un pericolo per l’Europa

Ha scandito ogni parola con chiarezza inusuale, ma il velo stracciato ha svelato il niente. Le parole del cancelliere dello Scacchiere George Osborne, esplicito nel dire agli imprenditori tedeschi che Londra, sostanzialmente, vuole un’Europa a due velocità hanno il merito dell’onestà, ma fermano un’istantanea che è già nei fatti.

Eppure l’uscita dalla trappola letale del Brexit potrebbe passare proprio per il riconoscimento formale dell’evidenza, per un New Deal fra l’eurozona in crescente integrazione e le altre capitali strette nella sola Unione europea.

Il braccio di mare da coprire - oltre quello non affatto secondario del contesto giuridico - è il mercato interno, capitolo centrale del negoziato in corso fra il governo britannico e il resto dell’Ue. L’unico capitolo che interessa a Londra, decisa a difenderlo dagli attacchi eventuali di un’area euro maggiormente coesa. L’offensiva diplomatica del premier David Cameron e del cancelliere George Osborne, in pieno svolgimento da settimane, s’è chiusa nel ridotto di una strategia negoziale e di comunicazione interna precisa: marcare le differenze con le capitali che condividono la moneta unica e incassare salvaguardie per il single market dal rinculo che l’eurointegrazione futura potrebbe avere su City, sterlina e popolarità della leadership Tory (elenco da leggere in ordine strettamente inverso). È, in realtà, una strategia che potrebbe essere funzionale anche agli interessi dei partners continentali, essendo, ormai, l’unica realisticamente capace di disinnescare la minaccia del Brexit. L’uscita traumatica di Londra dall’Unione per volontà popolare, sull’onda del referendum che si terrà entro la fine del 2017, è un rischio che continua ad essere largamente sottovalutato. Lo è per Londra, ma lo è per la stabilità di un’Europa in uscita dalla recessione più dolorosa che si ricordi.

Il restringimento dei confini dell’Ue per esplicita volontà di auto-esclusione di un Paese membro non ha precedenti con la sola eccezione - come già ricordato in passato - della Groenlandia. Se le urne sancissero la volontà di uno strappo netto la miccia della fuga dall’Ue comincerebbe a bruciare con una rapidità sensazionale, incendiando prima di Berlino e Parigi le capitali periferiche più esposte ai venti di demagogia e populismo, prone a quel “dagli all’Europa”, vivificante scorciatoia di comunicazione politica sul filo della menzogna. La storia finirebbe per riproporre il paradosso vissuto col Grexit quando, cioè, si notava che non erano i “numeri” di Atene nell’euro a rendere il ritorno della dracma un pericolo per la sopravvivenza della moneta unica, ma il precedente di un “exit” dalla divisa comune. Sotto il profilo politico l’addio britannico avrebbe sull’Ue un effetto simile a quello di Atene sull’euro, con un’aggravante: a dissolversi sarebbe anche il Regno Unito con la Scozia pronta a staccarsi pur di restare nell’Ue. E la “voglia” di piccole patrie si allargherebbe per simpatia al continente, dalle Fiandre alla Catalogna.

Le conseguenze economiche globali di un’Unione orfana del Regno Unito sarebbero dolorose, ma sul breve l’impatto sarebbe devastante, nonostante i mercati oggi non vogliano nemmeno immaginare un evento che gli opinion polls collocano nel reame del possibile. La sola idea della smobilitazione delle banche d’affari internazionali dalla City - paventata ieri da Morgan Stanley e Citi - basterebbe a dare una scossa profonda nel nome di un’Unione che si troverebbe, d’improvviso, senza capitale finanziaria per chi opera in sterline, ma anche in euro. Ma è per Londra che il Brexit potrebbe essere insostenibile: sembrano non temerlo solo alcuni manager di hedge funds, infastiditi dalla regolamentazione di Bruxelles e, solo per questo, pronti a finanziare il fronte del “No” all’Ue. Bagatelle per un massacro, se è vero che l’azzardo del referendum, inopinatamente voluto da David Cameron, rischia di mettere fine al regno dei Windsor per come lo conosciamo e di costare un prezzo non dissimile, secondo valutazioni della London school of economics, a quello pagato con la crisi del 2008.

I numeri sulla Non Europa per la Gran Bretagna impazzano, ma la realtà è nelle cronache di queste ore. L’altolà lo intonano in coro cinesi e americani, chiari nell’escludere patti commerciali di maggior favore per Londra dopo il divorzio da Bruxelles, mentre le nuove dinamiche in Medio Oriente, a cominciare dalle relazioni con l’Arabia Saudita, ricordano a un Paese illuso che trovare partner commerciali in alternativa a quelli europei non è possibile.

La ricerca di ragionevoli tutele a favore di un Regno deciso a non partecipare a un’Unione sempre più integrata è tuttavia l'unica strada possibile per evitare il Brexit. Toccherà ai partners far sì che siano davvero ragionevoli e quindi congegnate in modo tale da non inceppare, né rallentare di un solo giorno, le nuove tappe di integrazione di cui l’eurozona ha urgente bisogno. E quindi non potranno essere tutele sostanziali. Toccherà a David Cameron “venderle” al suo Paese, nella consapevolezza che dal suo partito e con la sua benedizione per anni si sono levati toni euroscettici radicali che sono all’origine delle incertezze di oggi.

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