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Il petrolio per l'Isis è un'arma spuntata

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il mercato del greggio

Il petrolio per l'Isis è un'arma spuntata

Tra i tanti interrogativi sollevati dalla nuova ondata di terrore orchestrata dall'Isis ve n'è uno che riguarda l'apparente rischio che corrono intere aree petrolifere fondamentali per la stabilità del mercato mondiale del greggio.

Gli attentati di Parigi sembrano indicare che lo Stato islamico mantiene una capacità di colpire aree e obiettivi differenti attraverso cellule che si generano di continuo, si mimetizzano, si muovono: in alcuni casi rimangono allo stato di piccole metastasi, non per questo meno micidiali; in altri, come in Siria, Iraq e Libia, aumentano la loro massa critica ponendo una minaccia all'integrità di interi Stati – o a parte di essi.

Sposata a una strategia di guerra totale all'Occidente, questa capacità potrebbe offrire all'Isis la possibilità di colpire il nemico in uno dei gangli più sensibili della sua economia, il petrolio, prendendo di mira impianti, oleodotti, giacimenti dei tanti Paesi - soprattutto arabi e musulmani - dove il Califfato sembra in grado di fare un numero crescente di proseliti. Secondo l'intelligence statunitense, questa possibilità esiste sulla carta, ma è ancora remota e difficile da realizzare.

Dagli anni Settanta a oggi ogni movimento arabo-islamico che abbia fatto ricorso al terrore come strumento di lotta ha sempre considerato “l'arma del petrolio” un obiettivo strategico in chiave anti-occidentale.

Tuttavia, nessuno di quei movimenti è riuscito a sguainare l'arma perché le installazioni petrolifere dei Paesi arabi – a partire dall'Arabia Saudita - sono obiettivi difficili da colpire: in generale, sono presidiate da ingenti apparati di sicurezza e si estendono su vaste aree con impianti multipli riparabili in tempi brevi. In altri termini, solo operazioni militari di maggiori dimensioni potrebbero provocare danni veramente esiziali, non il singolo attentato di una cellula.

Nei due Paesi petroliferi più immediatamente esposti al rischio Isis – Iraq e Libia – esistono, poi, altri ostacoli che complicano una strategia basata sul far crollare l'offerta di oro nero. In Iraq quasi il 90% della produzione di greggio attuale e futura proviene dal sud, fermamente in mano agli sciiti nemici giurati del Califfato (che, ricordiamo, ha matrice sunnita) e militarmente capaci di respingere le sue infiltrazioni. Le analisi più accurate di intelligence indicano che lo Stato islamico controlla nel Paese una produzione di greggio oscillante tra i 6mila (più probabile) e i 15mila barili al giorno (bg), ossia quasi niente (l'Iraq procuce oggi più di 4 milioni di barili al giorno – mbg).

Più delicata la situazione della Libia. L'80% delle riserve petrolifere del Paese si trova nella parte orientale, disseminata nel bacino della Sirte, mentre gran parte delle riserve e delle infrastrutture di gas naturale (tra cui quelle che consentono l'esportazione di gas libico in Italia) è nella parte occidentale. Come noto, a est e ovest vi sono due governi diversi (Bayda e Tripoli), che tuttavia non hanno un controllo effettivo sulle due regioni - dominio di milizie indipendenti. È questa atomizzazione del controllo del territorio, insieme alla relativa dispersione dei giacimenti petroliferi, a rendere più elevato il rischio che una porzione significativa della capacità petrolifera del Paese possa cadere nelle mani del Califfato. Questa possibilità, tuttavia, avrebbe più vantaggi in termini di autofinanziamento per l'Isis stesso che non generare rischi per il mercato globale. La produzione libica, infatti, è ridotta ai minimi termini, circa 400mila barili al giorno (contro un potenziale di 1,7 mbg). Un crollo da cui il mercato mondiale non è minimamente scalfito.

Ed è proprio l'attuale struttura del mercato mondiale a costituire uno dei principali antidoti contro un'eventuale strategia di terrore petrolifero dell'Isis. C'è troppo petrolio nel mondo e, almeno a breve-medio termine, l'eccesso di oro nero non è destinato a evaporare. A dispetto della drastica caduta dei prezzi dell'ultimo anno, tutti i principali Paesi produttori hanno incrementato la loro produzione, spesso sfidando quella che per molti esperti era una legge di gravità ineludibile - dettata da costi troppo alti rispetto ai prezzi stessi. Invece hanno vinto la legge di gravità Paesi come Canada e Russia, entrambi raggiungendo record di produzione storica negli ultimi mesi, nonostante siano condizionati il primo da costi marginali di produzione tra i più alti al mondo, il secondo da sanzioni internazionali che colpiscono direttamente il settore petrolifero.

E gli Stati Uniti? Secondo gli “esperti” avrebbero visto evaporare la produzione di petrolio da shale, troppo costoso per reggere la caduta dei prezzi. Per disdetta di quegli stessi esperti, a aprile la produzione americana ha toccato un quasi-record storico (9,6 mbg, solo greggio); in seguito è calata (oggi si aggira sui 9,2 mbg, in leggera risalita), ma troppo poco rispetto a quanto tutti vaticinavano. Ritmi di produzione imprevisti dai più hanno caratterizzato anche Arabia Saudita, Iraq e Iran.

La realtà, è che l'onda lunga degli investimenti già realizzati nel recente passato e ancora in corso di completamento continua a dispiegare i suoi effetti, facendo lievitare l'offerta mondiale. E continuerà a farlo per buona parte del 2016. Per il momento, il breve quadro dipinto è sufficiente a spiegare perché le ansie che pervadono molti analisti sul possibile connubio tra Isis e guerra del petrolio non scuotono più di tanto l'intelligence statunitense e non possono sovvertire un serio esame dei fatti. Almeno a breve termine. Ma poiché è lecito pensare che quella contro l'Isis sia una guerra di lungo termine, è impossibile ignorare il rischio che il Califfato riesca prima o poi a colpire là dove i suoi predecessori hanno fallito. Tutto dipenderà da come evolveranno nel tempo le capacità militari e organizzative dell'Isis stesso: se dovesse restare soltanto un'organizzazione di guerriglia – come al-Qaeda - avrebbe difficoltà a utilizzare l'arma del petrolio. Se diventerà qualcosa di diverso, allora ci sarà da preoccuparsi.
Leonardo_Maugeri@hks.harvard.edu

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