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O si fa l’Europa o si muore

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ANALISI

O si fa l’Europa o si muore

A furia di ripeterli, gli appelli all’unità europea, alla coesione e alla solidarietà, cioè a logica e buon senso, possono suonare inutili e triti, un po’ come le noiosissime prediche sui meriti di disciplina e profitto che all’inizio dell’anno scolastico i maestri infliggono a frotte di allievi disinteressati, regolarmente con la testa altrove.

Dopo i massacri di Parigi però sarebbe molto pericolosa, anzi suicida, la reazione del business as usual.

Questo, secondo il collaudatissimo binomio “emotività immediata alle stelle-successivi fatti concreti nelle stalle”.

Prima di tutto perché negli ultimi 15 anni questo atteggiamento non è servito a frenare il terrorismo islamico ma a farlo crescere e proliferare indisturbato. Secondo, perché con l’Isis il fenomeno ha fatto un deciso salto di qualità: non più lupi solitari pronti a immolarsi sognando il paradiso ma branchi ben addestrati e motivati, vere unità d' assalto coordinate da una regia che combina fede, ideologia e organizzazione in un mix sempre più efficiente e micidiale.

Terzo, perché le 132 bare (per ora) del 13 novembre sono il prodotto non del solito attentato nato e realizzato in un Paese, questa volta la Francia, ma del primo vero complotto trans- europeo, concepito e attuato sfruttando tutte le pieghe, le maglie deboli e le imperfezioni, troppe, con cui da sempre convive imperturbabile il progetto Europa. Uomini, kamikaze e mezzi e armi si sono mossi su una scacchiera estesa da Parigi a Bruxelles passando per le isole greche, Serbia, Croazia e Ungheria con tappa anche in Germania, per esportare con facilità a Parigi un piccolo duplicato delle violenze quotidiane a Damasco e Aleppo.

Come dire che se l’Europa delle eterne divisioni interne è incapace di sfruttare i suoi potenziali punti di forza, che pure sarebbero molti, per battere il terrorismo, in compenso gli consente di navigare agevolmente in mezzo alle sue evidenti debolezze per massacrare indisturbato i suoi cittadini inermi. Dovrebbe far riflettere molto questo paradosso europeo: ha anche permesso di coniugare insieme, per la gloria del califfo, la determinazione dei jihadisti con la plateale indeterminazione della risposta europea all’emergenza rifugiati, trasformata in cavallo di Troia ad uso del terrore.

Basterebbero queste banali constatazioni a obbligare l’Europa a un’immediata sterzata davvero unitaria. Se i suoi governi pretendono di essere gli insostituibili numi tutelari della sicurezza dei loro popoli non dovrebbero avere dubbi: le frontiere nazionali disordinatamente custodite, non l’aiutano ma servono ad altri per distruggerla. Ora è provato.

Invece no, almeno per ora. Se non si correrà quanto prima ai ripari con azioni concrete, i macellai di Parigi riusciranno anche a far esplodere l’ordine di Schengen, la libertà di viaggiare senza passaporto, storica conquista europea almeno come la moneta unica. Insieme al confusissimo e riluttante embrione di una politica europea dei rifugiati.

L’impalcatura scricchiola dovunque. Già una minima ripartizione per quote obbligatorie ha dovuto essere imposta ai Paesi dell’Est con voto a maggioranza. Un sistema permanente di quote resta un tabù per molti. La Polonia ora si ribella apertamente alla regola per non dover ospitare, dice, potenziali terroristi. Non sarà la sola, c’è da giurarci.

Traumatizzato in settembre dal ripristino temporaneo dei controlli alle frontiere in Austria e Germania, Schengen ormai boccheggia un po’ dovunque tra i muri eretti in Ungheria, Croazia e Slovenia e le porte chiuse ai confini di Svezia e ora anche di Francia e Belgio. Con quasi tutti i Paesi dell’Est arroccati su se stessi.

Già Angela Merkel rischiava la carriera politica sull’apertura ai rifugiati: ora che la questione si complica per le involontarie ma provate collusioni con il terrorismo che stanno emergendo, la crisi in Germania potrebbe aggravarsi risucchiando il cancelliere nel ciclone. Con danni evidenti per l’Unione, visto che oggi Merkel è l’unico leader che offre il mercato europeo.

«Siamo in guerra» ha detto chiaro il presidente francese François Hollande. Tutti, senza eccezioni. In guerra la routine non è più permessa. È vietata e bisogna fare in fretta quello che non si è mai voluto fare in tempo di pace: politiche unitarie e concrete. Ormai non ci sono alternative credibili: o si fa l’Europa o si muore. Sul serio.

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