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«Non è stato un furto, ma una rapina»

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Il COLpo al museo di Castelvecchio di Verona

«Non è stato un furto, ma una rapina»

Paola Marini, la direttrice del Museo di Castelvecchio di Verona, è letteralmente sconvolta. Non dorme da 48 ore e non riesce a capacitarsi della gravità di quanto accaduto, un fattaccio giunto a pochi giorni dal suo congedo dalla direzione di Castelvecchio, essendo la Marini sta nominata direttrice delle Gallerie dell’Accademia di Venezia.

«Sono addoloratissima perché questo è un colpo gravissimo contro Verona e l’Italia, per la quantità delle opere sottratte, per la qualità di alcune e anche per le modalità violente, quasi da assalto militare, con cui il colpo è stato perpetrato».

La sera del 19 novembre tre malviventi hanno fatto irruzione nel Museo di Castelvecchio a Verona, hanno immobilizzato una guardia giurata e la cassiera, e sotto la minaccia delle armi hanno costretto un vigilante ad accompagnarli nelle sale del museo dove si sono avventati su quindici quadri esposti nelle sale sottraendo alcune delle opere più celebri della pinacoteca veronese. Come la Madonna della quaglia di Pisanello, il Ritratto di bambino con il disegno di Giovanni Fransesco Caroto, il San Girolamo penitente nel deserto di Jacopo Bellini. Ma anche dipinti di Mantegna, dei Tintoretto e di Peter Paul Rubens. Un colpo che sembra perpetrato da professionisti, capaci di infilarsi con destrezza nelle maglie di un sistema di sicurezza tutt’altro che deficitario.

«Il museo dispone di 48 telecamere – dichiara la direttrice Marini –, di sistemi di allarme, di agenti di guardia armati e di sistemi di collegamento con l’esterno. La violenza dei malviventi, non la mancanza di sistemi di sicurezza del museo, hanno permesso il triste successo del furto».

Un successo davvero triste se si pensa a che cosa i ladri si sono portati via. In cima alla lista figura la Madonna della quaglia di Pisanello. Stiamo parlando di una tavola di 50 x 33 centimetri, databile al 1420, che rappresenta la prima opera attribuita con sicurezza a Pisanello, il più grande esponente – assieme a Gentile da Fabriano - del Gotico Internazionale in Italia. Un dipinto a dir poco meraviglioso che riproduce la tipica «Madonna dell’Umiltà», ovvero la Vergine Maria seduta nel prato che tiene il Bambino in grembo ed è incoronata da due angeli in volo. Il pittore ha dedicato molta attenzione alla rappresentazione delle specie vegetali e degli uccelli (tra cui la quaglia in primo piano, che dà il nome all’opera) che creano una sorta di ambientazione paradisiaca, evidenziata dal fondo oro.

Il Ritratto di bambino con il disegno di Giovanni Francesco Caroto è addirittura – per sua unicità - uno dei capisaldi della ritrattistica del Cinquecento italiano. Dipinto a olio su tavola, anch’esso piccole dimensioni (37 x 29 centimetri) e databile al 1523, questo quadro ritrae un ragazzo in atto di mostrarci un semplice scarabocchio. Ebbene, il quadro è un unicum perché non esiste in tutta la pittura italiana un soggetto siffatto, cioè un bambino che agisce come fanno i bambini nella realtà. La presenza di bambini nei dipinti non era qualcosa di nuovo nel Rinascimento: cherubini, putti, amorini e lo stesso Gesù bambino erano sovente rappresentati. Ma questa immagine rappresenta un bambino non idealizzato bensì in un atteggiamento reale, in un’epoca in cui i bambini erano di solito raffigurati come adulti in miniatura.

Anche il San Girolamo penitente nel deserto di Jacopo Bellini è un pezzo da novanta, è opera della maturità del grande capo clan della famiglia. Jacopo Bellini ebbe due figli maschi, Gentile e Giovanni, destinati a continuare la sua strada. Una figlia andò invece in sposa ad Andrea Mantegna, e Mantegna è un’altra delle vittime del furto: i ladri si sono portati via la Sacra famiglia con una santa, un’opera della tarda maturità dell’artista (1495-1505) sulla cui autografia, però, i pareri degli studiosi non solo unanimi. Le altre opere sottratte sono tele della cerchia di Jacopo e Domenico Tintoretto, di Hans de Jode e Giovanni Benini. Spicca un Ritratto di Donna di Pietro Paolo Rubens.

Dopo aver fatto l’elenco della refurtiva bisogna farsi delle domande. Chi sono i ladri? «Abili professionisti» dicono gli inquirenti. Che faranno delle opere? Difficile dirlo. Certo sono troppo note per essere vendute e dunque non è improbabile che vengano presto recuperate. E infine, si poteva evitare il furto? E ancora: i nostri musei sono sicuri?

Abbiamo girato le ultime domande a Carlo Hruby, vice presidente della Fondazione Enzo Hruby, unica fondazione in Italia che si occupa specificatamente di sicurezza dei beni culturali.

«Da quanto ho appreso dalle cronache – ha dichiarato Carlo Hruby – quanto accaduto nel Museo di Castelvecchio appare più una rapina che un furto, e forse i monitor delle numerose telecamere hanno potuto riprendere i malfattori. Ma è evidente che le telecamere da sole non bastano».

E allora che cosa occorre per fronteggiare emergenze di questo genere?

«Occorrono telecamere che non siano solo “occhi” ma “cervelli”. Oggi esistono sistemi di sorveglianza che riescono a rilevare situazioni anomale e a trasmetterle immediatamente a postazioni remote. La funzione «Stolen Object», ad esempio, permette di registrare immediatamente se un oggetto viene asportato dalla sua sede, lanciando un immediato allarme. Un’altra funzione, chiamata «Panic and Desorder», permette di registrare il fatto anomalo di qualcuno che si mette a correre nel museo (i ladri e, ahimé, i terroristi abbiamo visto che spesso corrono nei musei), e così si lancia un allarme immadiato a distanza. In altre parole, non servono tante telecamere che si limitino a guardare, servono piuttosto telecamere intelligenti che ci allarmino in tempo reale quando qualcosa non va nelle sale di un museo».

Dottor Hruby, ma quanti musei in Italia dispongono di queste telecamere intelligenti?

«Su 4500 musei penso l’uno per cento».

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