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Emergenze comuni e nuovi egoismi

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L’EUROPA DOPO IL 13 NOVEMBRE

Emergenze comuni e nuovi egoismi

«Non posso immaginare la Gran Bretagna fuori dall’Europa ma nemmeno l’Europa senza la Gran Bretagna»: Xavier Bettel, il premier lussemburghese e presidente dell’Unione fino a fine anno, quando il vertice Ue del 17-18 dicembre dovrebbe chiudere, secondo gli ottimisti, la partita negoziale con Londra, l’ha affermato prima degli attentati di Parigi del 13 novembre. Quella frase oggi appare ancora più vera di ieri.
Se la lotta al terrorismo, come hanno deciso venerdì a Bruxelles i ministri di Interni e Giustizia dei 28 accogliendo un’esplicita domanda della Francia, richiede politiche comuni di sicurezza più coordinate e credibili, il controllo rafforzato delle frontiere esterne di Schengen come di quelle interne che interessi anche tutti i cittadini Ue, la registrazione e conservazione per un anno dei dati di chi viaggia in aereo, di sicuro non può prescindere da una parallela e sempre maggiore cooperazione nel campo dell’euro-difesa, della creazione di un esercito comune.
Su questo punto un’intesa sempre più stretta tra Francia e Gran Bretagna, le due superpotenze militari europee, è una scelta imprescindibile. Senza Londra, infatti, una difesa europea credibile non farebbe molta strada. Ma senza Londra anche la politica di sicurezza rafforzata sarebbe monca: se il terrorismo è - come è - un problema europeo, una risposta unitaria e europea al 100% è il minimo necessario.

Se di mezzo non ci fosse una carica emotiva ai limiti dell’irrazionalità nel Paese che pure è noto per il suo proverbiale pragmatismo e se non ci fosse un premier, David Cameron, che ha scelto di rischiare di inciampare nei suoi propri piedi, la partita del rinegoziato con l’Ue non sarebbe mai stata giocata. E comunque non nello spirito del prendere o lasciare referendario. Brexit, per intendersi.
Se poi di fronte non ci fosse un’Europa in un altrettanto confuso stato mentale, scossa da crisi multiple insieme a spinte centrifughe alimentate da nazionalismi ed estremismi anti-Ue, il rinegoziato con Londra sarebbe molto simile a quelli che già ci sono stati: un duro tiramolla su concessioni più o meno sostanziali, ma nulla capace di incidere seriamente sulla solidità della casa europea.
Oggi invece, non solo il tipo di rivendicazioni inglesi ma la fragilità evidente dell’interlocutore che le deve valutare accentuano le incertezze sul futuro dell’Europa. In breve, l’unica soluzione concreta al dilemma di Bettel oggi appare l’Unione a geometrie variabili, a diverse velocità integrative, non si sa quanto a briglia sciolta e quanto invece ancora cementate tra loro da un disegno unitario di fondo.

Per restare nell’Ue oggi Cameron chiede varie cose, quasi tutte destinate a incidere sul progetto europeo con il rischio di ricondurlo alla vecchia idea britannica, transustanziatasi poi nel thatcherismo, di un’identità europea “basica”, grosso modo limitata al libero scambio, ai mercati e ai mercanti.
Di più. Le cose che chiede nella maggior parte dei casi presuppongono la modifica dei Trattati Ue. Come l’eliminazione dal preambolo del riferimento al processo per creare «un’unione sempre più stretta tra i popoli europei» o la modifica dell’affermazione che «l’euro è la sua moneta» per dire il contrario e cioè che l’euro «non è la sola moneta dell’Unione». Oppure il rafforzamento del peso dei parlamenti nazionali nel processo legislativo Ue o ancora la salvaguardia degli interessi dei Paesi non euro con il loro coinvolgimento nelle decisioni dell’eurozona.
La revisione dei Trattati è sempre un processo lungo e complesso da decidere e ratificare all’unanimità dei 28. Non a caso molti Paesi sono assolutamente contrari. Francia in testa: visti i precedenti, teme i referendum popolari per approvarli. Sarebbero infatti la panacea per i movimenti nazionalisti e anti-Ue attualmente e dovunque in ascesa. Ma offrirebbero anche a tutti i governi recalcitranti, dubbiosi o ostili – e non sono pochi tra Est, Ovest e Nord Europa - di aprire il vaso di Pandora delle più disparate rivendicazioni. Nel segno di un caos negoziale difficile da controllare in questa Europa tentata dalla fuga da se stessa.

Non basta. Cameron chiede anche di tagliar fuori dai benefici dello Stato sociale inglese per quattro anni dal loro arrivo gli immigrati Ue, in breve i cittadini europei che approdano nel Paese per lavorare. E questo per combattere il cosiddetto “turismo del welfare”. Anche altri paesi nordici, Germania compresa, hanno più volte manifestato analoghe tentazioni. Se la richiesta fosse accolta, nell’Ue sarebbe l’inizio della discriminazione tra cittadini europei e la fine di uno dei principi fondamentali del mercato unico e cioè quello della libera circolazione delle persone e dei lavoratori.
Come evitare, dunque, che il negoziato con Londra finisca per destrutturare l’Europa e le sue politiche comuni? Se Cameron vuole fare il referendum entro il 2017 non può pretendere la riforma dei Trattati, che richiederebbe ben più tempo. Per vincere il referendum però ha bisogno di impegni comunque vincolanti. Bruxelles ha già fatto sapere che non tutte le richieste potranno essere soddisfatte. Comunque vada a finire, l’iniziativa inglese scatenerà altri appetiti. Non sarà facile controllarli né trovare un punto di equilibrio che non diventi un boomerang involontario destinato a indebolire ulteriormente la già fragilissima coesione europea. Con la guerra al terrorismo in corso non ce ne è proprio bisogno.

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