L’innovazione delle imprese italiane è fuori dalle statistiche ufficiali. Ma è riconosciuta dai mercati. È estranea agli standard internazionali. Ma è dentro alla nostra tradizione storica e, soprattutto, è coerente con l’idea di futuro del nostro capitalismo industriale. Spesso l’innovazione non è riportata su bilanci.
Per ragioni di non convenienza fiscale quando le cose vanno bene e per capitalizzare i costi, migliorando in termini aziendali le performance aziendali, quando le cose vanno male. Però, c’è. Ed è una delle ragioni dell’esistenza – e delle prospettive strategiche – del nostro tessuto industriale.
Il primo problema è la morfologia: la fine del paradigma della grande impresa, che si è consumata all’inizio degli anni Novanta con la crisi dell’economia di matrice pubblica e con la riduzione dei gruppi privati che hanno fatto la storia del Novecento italiano, ha imposto una prevalenza della piccola e media dimensione che ha reso necessario l’introduzione di nuovi strumenti analitici per cogliere la vera natura della chimica industriale italiana, di cui l’innovazione è una delle principali molecole.
Su richiesta del Sole-24 Ore, il Centro Studi Confindustria ha compiuto una serie di elaborazioni sulla Community Innovation Survey di Eurostat. Gli esiti sono illuminanti. Mostrano il posizionamento del nostro tessuto imprenditoriale, secondo soltanto a quello tedesco. E chiariscono il paradosso italiano della innovazione disaggregata: se le nostre imprese sono dietro a tutte per R&S dichiarata nei bilanci (l’ufficio studi della Banca d’Italia ha coniato l’espressione «innovatori senza ricerca» nel pessimistico occasional paper dal titolo «Il gap innovativo del sistema produttivo italiano: radici e possibili rimedi»), la prospettiva cambia considerando altre spese in innovazione quali i macchinari e le apparecchiature, il design e la formazione.
Andiamo con ordine. Nella manifattura, in Germania il 44% delle imprese ha compiuto negli ultimi due anni una innovazione di prodotto, mentre il 31% ha realizzato innovazioni di processo. In Italia le aziende fautrici di innovazione di prodotto si sono attestate al 32% e quelle autrici di innovazioni di processo sono state il 35 per cento. In Francia, entrambe le categorie si attestano al 28 per cento. In Spagna queste quote crollano al 14% e al 19 per cento. Nel Regno Unito, dove la specializzazione funzionale nei servizi finanziari ha oscurato negli ultimi anni un significativo back to manufacturing, queste proporzioni si attestano al 28% (innovazioni di prodotto) e al 17% (innovazioni di processo). Dunque, nel tracciare la fisionomia delle identità delle imprese europee, si stabilisce una gerarchia che conferma la primazia tedesca e assegna all’Italia una posizione seconda posizione che non appare né subordinata né ancillare. Gli stessi equilibri si osservano nelle produzioni core per l’innovazione, costituite dalla manifattura classica al terziario industriale, dalle attività di ricerca alle componenti progettuali e ingegneristiche, dai fattori di più spiccata creatività al marketing: in Germania si dedica all’innovazione di prodotto il 36% delle aziende e all’innovazione di processo il 26% delle imprese; in Italia accade rispettivamente al 29 e al 30 per cento delle nostre imprese. In Francia, in entrambe le categorie, si scende al 24 per cento. In Spagna si crolla all’11% e al 15 per cento. In Inghilterra, ci si riassesta al 24 e al 14 per cento.
La specificità italiana emerge ancora con maggiore nettezza dalla disaggregazione delle spese in innovazione operata dal Centro Studi Confindustria ricorrendo sempre ai dati della Community Innovation Survey di Eurostat. È vero che le spese in R&S contabilizzate sui bilanci sono poca cosa: un punto percentuale del fatturato aggregato di tutta la manifattura, contro il 3,2% della Germania e il 2,8% della Francia. È vero che la quota sui ricavi aggregati dell’intero sistema industriale ottenuta con i brevetti e le licenze è stata pari allo 0,06% in Germania, allo 0,07% in Spagna e allo 0,03% in Italia (peraltro, lo stesso della Francia). Ma è altrettanto vero che la realtà assume un diverso aspetto adoperando altri dati contabili: considerando le spese in innovazione espresse in design, formazione e marketing ecco che in Italia ci si attesta allo 0,24 per cento dei ricavi consolidati dell’intera manifattura. Molto meno della Germania, dove ad esse è riferibile lo 0,89% del fatturato aggregato. Ma molto di più della Francia (0,05% dei ricavi totali), della Spagna (0,09%) e del Regno Unito (0,14%). La componente dell’innovazione reale – esplicita e contabilizzata, ma anche informale e agita con felice inconsapevolezza dagli imprenditori – appare anche uno dei fattori che spiegano alcuni risultati altrimenti poco comprensibili adoperando le griglie interpretative del mainstream, per le quali l’Italia dovrebbe essere ridotta ad un cimitero post-industriale: per esempio, l’apprezzamento riconosciuto dai prodotti dell’industria italiana sui mercati internazionale. Basta consultare le statistiche dell’Istat: se nel 2000 l’export era pari a 260 miliardi di euro, nel 2008 ha toccato il picco precrisi di 369 miliardi di euro per poi crollare, durante la recessione, e tornare nel 2014 ad un valore di 398 miliardi di euro. Una dinamica virtuosa che si rispecchia nelle quote del commercio internazionale calcolate non in volume, ma in valore, di tutta l’economia italiana: la Fondazione Edison ricorda come, nonostante le quote del commercio internazionale fossero pari nel 2008 al 3,5%, esse siano prima calate nel 2012 al 2,9%, ma siano poi risalite al 3,1% nel 2013. In questo contesto, dunque, c’è quello che appare sui bilanci formalizzati e quello che, anche nei suoi tratti informali e impliciti, si vede nella realtà. Quello che appare sui bilanci sono per esempio gli investimenti in Ricerca & Sviluppo delle multinazionali con oltre 3 miliardi di euro analizzate dall’ufficio studi di Mediobanca, che in un calcolo complessivo ha stimato in 6 miliardi di euro le spese in R&S riferibili alle società italiane (il 2% del campione totale). In questa disaggregazione per settore, l’ufficio studi di Mediobanca ha mostrato come, negli ultimi dieci anni, nel nostro Paese le spese di R&S siano state costantemente sopra il 10% dei ricavi per le imprese dell’aerospazio, mentre nell’automotive industry questa quota sia variata fra il 2,2% e il 3, per cento (fra il 30 e il 100% in più, a seconda degli esercizi, nei competitor francesi e tedeschi).
Nella tendenza bipolare del capitalismo italiano, che produce fratture fra le parti che funzionano e quelle che non funzionano in un sistema produttivo a costante rischio di schizofrenia, esiste dunque una particolare geometria, valida anche nella componente virtuosa. In quest’ultima, c’è l’innovazione che si vede e quella che non si vede: appunto le multinazionali nella dizione di Mediobanca e appunto quel non irrilevante terzo di imprese italiane dedito all’innovazione informale e creativa scrutinato, attraverso l’occhio della Community Innovation Survey di Eurostat, dal Centro Studi di Confindustria. Nella progressiva costruzione di un paesaggio industriale reale e non immaginario, sussiste quindi – come già detto – una questione di metodo. A fornire un chiarimento, è una analisi compiuta dalla società di consulenza Prometeia, su richiesta del Sole-24 Ore, sulla banca dati Bureau Van Dijk. In questo caso, in esame è l’incidenza delle immobilizzazioni immateriali sulle immobilizzazioni complessive. Le immobilizzazioni immateriali comprendono le spese in R&S e i brevetti, le licenze e le concessioni: sono, nei dati di bilancio, la migliore approssimazione della spesa per l’innovazione e per la differenziazione qualitativa delle produzioni. L’incidenza delle immobilizzazioni immateriali su quelle complessive è pari, nella manifattura, al 19,6 per cento. Nel capitalismo industriale italiano, esiste un pacchetto di mischia di settori con una media di gran lunga più alta: l’industria aerospaziale ha il 63,7%, l’elettromedicale e la meccanica di precisione hanno il 46,6%, la farmaceutica il 40,2%, gli elettrodomestici il 39,4%, la meccanica ha il 29,2% e l’elettronica il 29 per cento. Si tratta davvero del gruppo più duro e coriaceo che la nostra economia possa fare scendere nell’arena della competizione globale. Non a caso, secondo lo studio della società di consulenza Prometeia fra 2010 – primo anno di recessione dura – e il 2014, mentre la manifattura italiana perdeva il 2,6% del fatturato, i settori innovativi guadagnavano un punto e mezzo, in particolare grazie al +25% delle esportazioni. Nell’analisi della società di consulenza, l’attività innovativa si traduce in una maggiore importanza e qualità del fattore lavoro, sia in termini di incidenza sul valore complessivo della produzione (il 18% per i settori innovativi, contro il 15% medio della manifattura) , sia come costo medio di un lavoratore (55mila euro lordi all’anno, il 15% in più rispetto alla manifattura). Peraltro, i settori innovativi hanno una migliore redditività della gestione caratteristica, con un Return On Investment pari al 6,8% rispetto al 5,5% del sistema industriale nel suo insieme, grazie soprattutto alla maggiore redditività delle vendite, che sviluppano un Return On Sales del 5,5% contro una media del 3,9 per cento. Questa morfologia virtuosa basata sull’innovazione produce vantaggi rilevanti sullo scenario competitivo internazionale. Secondo le stime di Prometeia, fra il 2010 e il 2014 la quota in valore sul commercio mondiale dei nostri settori più innovativi è salita dal 3,2% al 3,3 per cento. E, questo, mentre la manifattura italiana calava dal 3,6% al 3,5 per cento. Nonostante la durezza di questi cinque anni, fra i segmenti a più alto tasso di innovazione reale la meccanica generica è passata dal 7,1% al 7,2%, la meccanica di precisione dal 2,2% al 2,3% e la farmaceutica dal 3,8% al 4,7 per cento. Il calabrone italiano ha, dunque, le ali composte di quella fibra delicata e sorprendente chiamata innovazione. Il calabrone italiano, nonostante tutto, riesce a volare. E lo fa bene.
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