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Europa in crisi: le responsabilità della politica

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L’INTERVENTO

Europa in crisi: le responsabilità della politica

Quello che segue è il testo della lezione che Giorgio Napolitano ha tenuto il 27 novembre all'Università di Pavia in occasione del conferimento della Laurea Honoris Causa in storia.

Quel che Pavia, con il suo Ateneo e i suoi Collegi, ha rappresentato di eccellente e di peculiare nella lunga storia delle Università e dell'educazione in Italia, prima e dopo la nascita dello Stato unitario, e quel che essa tuttora rappresenta per il progresso culturale e civile del paese, mi fa sentire particolarmente onorato nell'accogliere oggi la Laurea honoris causa da voi generosamente deliberata. E ancor più onorato nel veder affiancarsi il mio nome a quelli delle eminenti personalità italiane e straniere che hanno, nel tempo, ricevuto prima di me questa alta distinzione. Tra essi mi piace ricordare innanzitutto Luigi Einaudi, il più lontano mio predecessore nel mandato settennale di Presidente della Repubblica, ma da me avvertito come particolarmente vicino, col suo esempio, nell'esercizio del mio impegno in Quirinale. E insieme voglio richiamare i nomi di Altiero Spinelli e Amartya Sen sui quali mi si consentirà di soffermarmi brevemente per un richiamo e omaggio personale.

Ad Altiero Spinelli mi sono intimamente legato da quando cominciai a operare, insieme ad altri, come “testa di ponte” - la definizione è nei suoi Diari - per la penetrazione delle idee europeiste e federaliste nel partito comunista italiano, già nella seconda metà degli anni '60. Dal suo carattere e dalla sua battaglia ho imparato moltissimo, pur avendo egli rappresentato qualcosa di assolutamente unico. Nel corso della sua lunga e travagliata esperienza in carcere e al confino sotto al fascismo - culminata nella grande ideazione del Manifesto di Ventotene - aveva rotto col suo partito e non si era legato ad alcun altra forza politica. Quando tornò libero, Altiero assunse un profilo diverso da quello di chiunque altro : fu combattente di una sola causa - l'Europa unita - e il suo divenne integralmente un pensare europeo, un agire europeo.
Una storia e un profilo irripetibili, quelli di Altiero Spinelli, una lezione e uno stimolo che non hanno perduto nulla della loro forza.

Di Amartya Sen, che voi avete giustamente salutato qui come Maestro, dirò solo del suo interesse e della sua simpatia per l'Italia e per l'Europa, quali mi sono apparsi attraverso gli incontri e le conversazioni che me lo hanno fatto via via conoscere. Lo stretto legame che egli stabilì con la famiglia Spinelli si tradusse in autentico legame ideale con la battaglia di Altiero. E un formidabile tramite con l'Italia era già stato per lui rappresentato dal rapporto, da studente prima e da collega poi, al Trinity College di Cambridge, con un italiano d'eccezione, Piero Sraffa.
A entrambi, Spinelli e Sen, mi sono riferito in miei recenti, impegnativi interventi pubblici. Perché si tratta di riferimenti pertinenti e illuminanti nello sforzo di riflessione storico-culturale che in quest'autunno ho avuto a più riprese occasione di sviluppare attorno ad aspetti cruciali del duplice nesso Italia-Europa ed Europa-mondo.
Muovendomi ancora in questo solco, intendo oggi soffermarmi sull'aspetto dei comportamenti delle leadership e delle forze politiche come concause delle contraddizioni e divisioni da cui oggi è stretta l'Unione Europea, e al tempo stesso come responsabili, guardando avanti, delle scelte che s'impongono per il superamento della crisi e del travaglio in atto.

Dalla crisi finanziaria ed economica globale che li ha raggiunti sul finire dello scorso decennio, l'Europa, l'eurozona, il nostro paese stanno uscendo, grazie a una ripresa sia pure insufficiente e ancora malsicura, ma netta. Tuttavia, con le efficaci parole - scritte di fronte a quei segni di ripresa - di un brillante studioso e commentatore, Maurizio Ferrera, possiamo dire che «la terra ha smesso di tremare e l'euro è sopravvissuto al rischio di disintegrazione, ma le crepe restano. E soprattutto si sono alzati fortissimi venti sul piano politico. I sacrifici imposti durante la crisi e i risentimenti fra popoli e fra governi stanno oggi mettendo a repentaglio la tenuta dell'Unione Europea in quanto comunità di Stati».
La crisi finanziaria ed economica, passata anche attraverso la convulsa vicenda greca, è dunque sfociata in crisi politica, e questa, senza soluzione di continuità, in crisi non solo politica ma ideale, di valori e di principi fondamentali. Fattore scatenante e rivelatore la drammatica impennata della pressione migratoria, dell'afflusso, soprattutto, di richiedenti asilo.

D'altronde, già la risposta alle difficoltà delle economie e dei bilanci pubblici che, per una fase non breve, si era identificata con l'”austerità”, aveva rispecchiato una visione di corto respiro, non lungimirante, della condizione e delle prospettive dell'Europa nel contesto mondiale. Le conseguenze di ciò sul piano politico-elettorale, in diversi casi clamorose e dirompenti, non si sono fatte attendere. E le più negative reazioni, in diversi paesi dell'Unione, all'ondata senza precedenti degli arrivi in Europa di stranieri di varia provenienza e condizione, hanno reso evidente la portata delle incomprensioni e delle vere e proprie regressioni che covavano in seno all'Europa.
Concausa rilevante di queste tensioni e contraddizioni, è certamente la mancata percezione, da parte delle nostre nazioni, del radicale mutamento intervenuto da qualche decennio nel contesto mondiale. In effetti, «le nostre nazioni non ne sono state rese consapevoli dai loro governi» : è questa la denuncia che levò già nel novembre 2011, al Congresso della SPD, Helmut Schmidt in un discorso memorabile per drammaticità e per coraggio politico. Schmidt - alla cui figura ho reso omaggio lunedì ad Amburgo e rivolgo qui un commosso e grato pensiero - passò innanzitutto in rassegna i dati - comuni a tutte le previsioni - che segnalano l'inesorabile perdita di peso dell'Europa nel nuovo contesto mondiale, di qui al 2050, sul piano demografico, in rapporto al prodotto economico globale e su altri versanti essenziali.
«Questo significa - egli concluse - che se noi europei vogliamo avere la speranza di mantenere un significato per il mondo, possiamo farlo solo in comune. Infatti, come singoli Stati - in quanto Francia, Italia, Germania o in quanto Polonia, Olanda, Danimarca o Grecia - alla fine potremo essere misurati non più in percentuali, ma solo in millesimi».

Constatazioni e previsioni simili sono, negli ultimi anni, certamente venute, sia pure con minore crudezza, anche da importanti personalità attualmente al governo in Europa: ad esempio, dalla Cancelliera tedesca Signora Merkel, quasi a fugare ufficialmente il dubbio che in Germania si coltivi una presunzione di eccezionalità o un'illusione di autosufficienza in quanto maggiore Stato e maggiore economia d'Europa.
Ma è un fatto che nell'insieme, e da troppo tempo, non è stata trasmessa, attraverso i canali della politica, agli strati più larghi dell'opinione pubblica e dell'elettorato nei nostri paesi, una realistica presa d'atto di come sia strutturalmente - nel profondo e in prospettiva - cambiato lo status dell'Europa. Per effetto di molteplici eventi storici, confluiti nel più ampio processo di globalizzazione, dobbiamo più che mai parlare - come ha fatto il vecchio Cancelliere nel discorso che ho già richiamato - del “nostro piccolo continente europeo”.
Il baricentro dello sviluppo mondiale si è spostato lontano dall'Europa e dall'Atlantico. Abbiamo di fronte nuovi grandi protagonisti economici e politici. I paesi emergenti, «i mercati emergenti - come ha di recente rilevato il Presidente Draghi - valgono il 60% del prodotto mondiale ; a partire dal 2000 tre quarti della crescita mondiale sono dovuti a loro, la metà delle esportazioni dell'area dell'euro va in questi mercati». E se essi registrano in questo momento un rallentamento «probabilmente non transitorio», ciò può preoccupare in generale, ma non attenua per l'Europa i termini della sfida ardua come non mai che ci tocca fronteggiare. Sfida di cui sono parte integrante i ritmi della rivoluzione tecnologica, le leggi inesorabili della competitività.

In che misura di tutto ciò hanno le nostre classi dirigenti e leadership politiche dato coscienza ai cittadini-elettori? Non perché vi si reagisse con spirito rinunciatario, subendo come fatale declino quella che è una dura partita da combattere. Ma perché la si combatta uniti, al fine di “mantenere come europei un significato per il mondo” pur avendo perduto la condizione privilegiata di cui godevamo : al fine dunque di dare ancora un nostro peculiare contributo alla costruzione di un nuovo sviluppo e ordine mondiale, salvaguardando anche per i nostri paesi, per le nostre società, l'essenziale delle conquiste di civiltà e di benessere via via raggiunte.
Purtroppo si è lasciato che si radicassero ampiamente sordità e miopie, quasi un voler tenersi lontani da realtà sgradevoli e allarmanti ; si sono lasciate fermentare reazioni di rigetto e di chiusura, illusioni anacronistiche di conservazione dell'esistente e di prolungamento delle aspettative coltivate nel passato. Sono qui le responsabilità della politica, per le debolezze e le ambiguità che l'hanno segnata per anni.
Siamo, così, dinanzi a regressioni nazionalistiche, a insorgenze populiste, ad estremismi vecchi e nuovi, che hanno congiurato nell'oscurare contrastare la sola autentica necessità storica per l'Europa, coincidente con l'interesse strategico di lungo periodo degli Stati nazionali europei : la necessità, cioè, di una crescente cooperazione e integrazione, e oggi, ormai, di un vero e proprio salto di qualità verso l'unione politica.
Procedere in tale direzione è precisamente la responsabilità in positivo che la politica è chiamata ad assumere. Si tratta di partire da un'agenda fatta di urgenze, su cui si affannano e dividono le istituzioni dell'Unione : urgenze da sciogliere in un orizzonte più lungo di quello dominante, nel senso di un'effettiva progressione verso forme via via più avanzate di integrazione, soprattutto nell'Eurozona.
Su ciascuno dei temi impostisi all'ordine del giorno, si riproducono le stesse posizioni frenanti e le stesse resistenze : ripiegamenti sulla dimensione nazionale, sbarramenti e contrapposizioni di stampo populista.

È ciò che sta accadendo sul tema emerso negli ultimi mesi come ineludibile e dirompente: la crisi dei profughi. Ed è quel che non deve accadere di fronte al repentino imporsi, in queste settimane, al centro dell'attenzione e nel modo più drammatico, della sfida mortale del terrorismo, del fanatismo estremo in veste di Stato Islamico.
Questa sfida, e la necessità di fronteggiarla in tutta la sua complessità, hanno in questo momento un tale spazio nelle ansie dei cittadini e dei governi da sommergere, quasi, tutte le tematiche e preoccupazioni precedenti. Ma, attenzione : i nodi accumulatisi nella realtà europea e nel governo dell'Europa permangono e non possono restare irrisolti.
Parto dalla crisi dei profughi, con cui avremo comunque e a lungo da fare i conti. E anche a questo proposito il primo imperativo è portare avanti la nostra visione e costruzione europea, non fare fatali passi indietro.

Con la lucidità e l'equilibrio di sempre, Jacques Delors è intervenuto con una dichiarazione del 7 novembre per reagire alle mistificazioni - «i profughi sono delle vittime, non delle minacce» - e per sostenere la causa dell'accoglienza e dell'integrazione. Ma lo ha fatto senza contrapporre l'appello per più solidarietà alle preoccupazioni per la sicurezza. E ciò è divenuto cruciale dinanzi all'acuirsi - sotto il drammatico urto degli sconvolgenti attacchi del terrorismo a Parigi - della stringente necessità, nella percezione ormai comune a tutti gli Europei, di un impegno in prima persona dell'Europa per la sicurezza : impegno per troppo tempo trascurato o delegato ad altri.
Delors, intervenendo con quella dichiarazione prima del sanguinoso venerdì 13 novembre, ha sottolineato che al fine di garantire il controllo delle nostre frontiere anche rispetto alle incursioni terroristiche, occorre non retrocedere verso la scelta inefficace della tutela da parte di ciascuno Stato dei propri confini nazionali, bensì difendere e rafforzare strumenti come l'accordo di Schengen e altri che ci hanno permesso e possono permetterci ancor più di europeizzare un approccio che coniuga più libertà - la grande conquista della libera circolazione delle persone - e più sicurezza.
E questo punto appare cruciale, alla luce della drammatica esperienza dell'attacco terroristico a Parigi : il controllo delle frontiere, come, in ciascun paese, il controllo del territorio, sono il quadro entro cui poter agire insieme al livello europeo per disinnescare la minaccia del terrorismo, che siamo chiamati a contrastare, in uno con l'ISIS, con ogni mezzo sul piano internazionale. Il netto riferimento all'accordo di Schengen - che contempla peraltro sospensive imposte dall'emergenza e può consentire altri accorgimenti senza essere stravolto - sta a ribadire la validità di un approccio comune europeo, e della salvaguardia di conquiste di libertà da non sacrificare dandola vinta ai nemici dei nostri valori fondanti.

E c'è di più : guardare al mondo d'oggi significa per noi innanzitutto misurarci con afflussi massicci (non solo verso l'Europa !) di richiedenti protezione e asilo in fuga da guerre devastanti - come quella dilagata oltre ogni previsione in Siria - o da conflitti e persecuzioni in paesi di cronica disgregazione e violenza armata. Ma dobbiamo misurarci anche con un altro fenomeno, quello dell'emergere di una reazione impetuosa da parte delle popolazioni di aree - specie in Africa - che permangono in condizioni di estrema indigenza e di generale degrado. E accanto ad esse ci sono invece paesi e continenti nei quali, e grazie a trasformazioni profonde, sono in breve tempo uscite dalla povertà centinaia di milioni di persone, o si sono avviati (nella stessa Africa) rilevanti processi di rapido sviluppo. Si sono così accresciute - e in modo visibile - le disuguaglianze, e con esse il senso di insopportabilità e la volontà di evasione da un destino penoso e mortificante.
Ciò si traduce in una forte spinta migratoria, sollecitata e sfruttata da organizzazioni criminali senza scrupoli, e in gran parte diretta verso l'Europa che, nonostante il suo travaglio e il suo minor dinamismo economico, appare ancora “terra promessa”.
Diventa dunque decisivo un rapporto di dialogo chiarificatore e di cooperazione concreta e generosa tra l'Europa e i paesi di provenienza di tale afflusso di migranti economici, in cerca di lavoro. Effettuando, certamente, un rigoroso screening tra questi ultimi e quanti giungono nei nostri paesi con evidenti titoli per ottenere l'asilo, operando perché agli arrivi illegali conseguano concordate riammissioni nei paesi di origine, ma si accompagni altresì “la creazione” - come suggerisce Delors - di “rotte europee di immigrazione legale”, entro limiti e con controlli ben definiti.

Mi sono soffermato con qualche ampiezza, per comprensibili motivi, sull'urgenza migratoria, anche nei suoi nessi con l'emergenza sicurezza ora in primo piano, e debbo perciò limitarmi al più sommario richiamo ad altri capitoli dell'agenda su cui lavorano le istituzioni dell'Unione.
Dall'inizio della crisi finanziaria ed economica che sul finire dello scorso decennio ha investito l'Europa, e in modo più stringente l'Eurozona, si è percorso un cammino che non ha molto senso continuare a esaminare criticamente, specie per l'approccio intergovernativo che l'ha caratterizzato. Le difficoltà hanno comunque spinto a innovazioni significative, sul piano di procedure e discipline di bilancio concertate, e in termini di nuovi obbiettivi di “completamento dell'Unione Economica e Monetaria” secondo la definizione adottata dal documento del dicembre 2012 a firma dei “quattro presidenti” delle istituzioni dell'Unione. Si è nel contempo perseguito un intreccio tra scelte di maggiore flessibilità nell'uso di risorse nazionali per investimenti e crescita, e insieme di riforme strutturali, volte a rimuovere incrostazioni e rigidità, istituzionali e sociali, che pesano sull'efficacia delle decisioni pubbliche, sulla fluidità dei rapporti di lavoro e sulla competitività. Su quest'ultimo terreno l'Italia sta facendo la sua parte con insolita determinazione.

Ma è tempo di uscire da ambiguità, esitazioni e lentezze nell'andare oltre, e mettere pienamente in atto forme di unione più stretta, facendo leva sull'Eurozona : unione bancaria, in tutti i suoi aspetti, attribuzione all'Unione di fiscal capacity, fondo europeo per la disoccupazione, visione integrata della politica europea affidata a un sistema limpido e impegnativo di governance economica. E' concepibile, invece, nelle stesse direzioni indicate ormai tre anni fa, continuare con piccoli passi, battute d'arresto, nuove nebulose enunciazioni ? Il rischio è concreto, per effetto, sempre, di quelle posizioni frenanti e resistenze che vengono dalla politica. Perché nell'Europa dei 28, in un continente interconnesso come non mai - dall'economia al diritto - la politica è rimasta nazionale. Questa è, a mio giudizio, la fonte delle carenze del passato e dell'incertezza del futuro di questa nostra Unione in crisi.
La politica è rimasta nazionale, nel senso che è stata condizionata in modo determinante, in ogni paese membro dell'Unione, da una visione angusta e meschina dell'interesse nazionale, e da pulsioni demagogiche sfociate nell'antipolitica e nell'antieuropeismo. I cedimenti a queste spinte, la tendenza alle dissimulazioni e al compromesso, hanno da anni avuto la meglio, o gravemente pesato, anche in seno a forze politiche in linea di principio europeistiche. La politica è rimasta frammentata in sempre più asfittici ambiti nazionali, e nelle tante, singole competizioni politico-elettorali su scala nazionale. Essa è risultata così sempre meno capace di guidare le decisioni europee e anche solo di raccontarle.

Si può, in queste condizioni, produrre il cambiamento di passo indispensabile, la determinazione necessaria per dare più forza al profilo sovranazionale dell'Unione Europea, delegando nuove e maggiori quote delle sovranità già nazionali alle istanze europee di governo di una sovranità condivisa ?
Si può giungere finalmente a quella politica comune dell'asilo e dell'immigrazione che le situazioni e prospettive ormai percepite da tutti drammaticamente sollecitano ?
E si può mettere davvero sui binari giusti, già nel quadro del Trattato di Lisbona, l'avvio di un sistema di sicurezza e difesa comune europea, sempre colpevolmente rimasto allo stato di enunciazione ipocrita ? Eventualmente anche adottando un'innovazione speciale per dare immediata unitarietà all'impegno europeo contro il terrorismo ?
E si può dare, insieme, quell'assertività, quella capacità di proposta e di influenza che ancora le manca a una politica estera europea, pure non priva di strumenti istituzionali significativi e attualmente più dinamica ma ancora, ad esempio, malamente stretta tra il perdurante contenzioso con la Russia scaturito dal coacervo della crisi ucraina e il solo iniziale ristabilimento di un asse di collaborazione mondiale Europa-America-Russia ?
Il mio interrogativo su quei “si può?” non è retorico. La risposta, assai problematica nel tempo presente, può darla solo la politica stessa. E non possiamo cavarcela lamentando l'inadeguatezza della leadership europea. Tanto meno può farlo chi di quella leadership e di quella inadeguatezza è stato partecipe. Dobbiamo esercitare, certo, il diritto a critiche puntuali, ma avere responsabilmente rispetto per quanti di volta in volta operano al vertice delle istituzioni, e anche per le strutture che cooperano all'attuazione delle loro decisioni. Facciamo bene attenzione a non alimentare o avallare movimenti populisti, di cui il professor Fabbrini, in una sua accurata analisi, ha analizzato i tratti illiberali e ha denunciato tra l'altro l'anti-elitismo, la demagogica negazione di ogni riconoscimento per tutto quel che non proviene direttamente dal popolo sovrano.

La questione vera è quella del rafforzare tutti i canali di partecipazione dei cittadini e di autentica democraticità del processo di formazione delle decisioni europee. Ma a questo fine è necessario superare la condizione attuale di assenza di una “sfera pubblica europea”, che consenta circolazione e confronto delle opinioni su larga scala. E' necessaria una effettiva integrazione - nella distinzione delle rispettive funzioni - tra Parlamento europeo e Parlamenti nazionali. E' necessario non solo - specie in Italia - un rinnovamento e rilancio, ideale e morale, dei partiti politici, ma una loro europeizzazione.
Naturalmente, penso ai partiti che hanno sostenuto - fin dall'inizio o successivamente, con l'allargarsi della Comunità e dell'Unione - la causa dell'unità e integrazione europea, e hanno seriamente contribuito alla costruzione europea. Essi fanno capo ai quattro partiti definitisi europei : il Partito Popolare, il Partito Socialista, il Partito Liberale e quello dei Verdi. Questi però sono rimasti dei contenitori largamente formali, piuttosto amorfi e di scarsa vita attiva. I partiti nazionali ad essi aderenti si sono sempre attenuti, nella loro prassi politico-elettorale, a logiche nazionali, hanno continuato a competere su temi nazionali assai più che sulle scelte europee, hanno dato e danno assai più importanza alle elezioni nazionali e locali che a quelle per il Parlamento europeo.

E questo anche perché i partiti europei in quanto tali, debolmente strutturati e legittimati, non sono crogiuoli di coerente elaborazione e caratterizzazione unitaria. Guardiamo ai due maggiori. Nel Partito Popolare, di storico retroterra europeista, sono certamente presenti posizioni anche molto avanzate : è ad esempio da apprezzarsi fortemente la coraggiosa assunzione di responsabilità da parte della Cancelliera Merkel sull'accoglienza dei richiedenti asilo. Ma in quel partito è ospitato in pari tempo qualche indecente esempio di posizioni illiberali e perfino razziste. Nell'altro partito maggiore, quello socialista, si fanno sentire i cronici alti e bassi del Labour Party britannico nel rapporto col processo di costruzione europea.
E se posso permettermi una breve digressione, osservo che non viene dal Partito Socialista Europeo il contributo che se ne potrebbe attendere per rivitalizzare un patrimonio di idee e di innovazione che è proprio della tradizione socialdemocratica, ed è più in generale parte integrante della comune storia del progresso economico, sociale e civile del Novecento in Europa e in Occidente.
Nel suo ultimo libro, il compianto, magnifico storico Tony Judt scandì così il nucleo essenziale di quelle conquiste di cambiamento e di progresso : «Il compromesso keynesiano, il mercato regolato, la sinergia tra comunità, fiducia e impegno comune, le great societies». Non penso, nonostante la finezza dell'analisi, che possiamo considerare con Judt tutte quelle conquiste come «il mondo che abbiamo perduto», azzerato dal cosiddetto neo-liberismo negli ultimi decenni. E penso che nel tentare un bilancio di “quel che è vivo e quel che è morto nella socialdemocrazia”, non vada ignorata la possibilità di vitali ripensamenti e ricollocazioni delle più avanzate esperienze del Novecento nell'attuale quadro internazionale : possibilità offerta dalla prospettiva di uno sviluppo europeo sovranazionale. Riflettendo su questi temi, la sinistra europea incrocerà di nuovo il dibattito non certo obsoleto - alla luce dei contributi di Sen, Rawls, Bobbio - sulle questioni nodali dell'uguaglianza e della giustizia, da tempo particolarmente studiate e discusse in questa Università.

Ma torno - avviandomi a concludere - al filo del mio discorso. Ci sarebbe molto da guadagnare da un'effettiva europeizzazione della politica e dei partiti, E c'è da coltivare il primo seme di una leale competizione elettorale tra i quattro partiti europei e fondamentalmente europeisti : il primo seme è stato costituito, nella primavera del 2014, dalla presentazione dei rispettivi candidati, in vista dell'elezione del Parlamento europeo, all'incarico di Presidente della Commissione Europea.
Come si vede, il mio appello a una piena assunzione di responsabilità - da parte della politica - per l'ulteriore cammino dell'integrazione europea non si rivolge solo ai leader di governo e di partito nei paesi dell'Unione. Si rivolge a molteplici soggetti, ai partiti innanzitutto, e anche a varie componenti della società civile, tra le quali quelle direttamente interessate allo sviluppo della dimensione sociale - oggi palesemente insufficiente - del processo di integrazione.
Detto questo, tocca tuttavia alle leadership dei governi nazionali e delle istituzioni europee dare il primo impulso rispetto ai dilemmi che sono sul tappeto. Il dilemma, in particolare, del confronto con la piattaforma referendaria delineata per il Regno Unito dal primo ministro Cameron .
Una piattaforma che non chiama in causa soltanto quella grande nazione amica, che vogliamo, per molte buone ragioni storiche e attuali, non veder distaccarsi dal cammino unitario dell'Europa continentale. Una grande nazione che peraltro ha tenuto fin dall'inizio, e ha a più riprese ribadito, le distanze dal disegno di vera e propria integrazione lanciato nel 1950. Al di là di ciò, dicevo, viene in sostanza delineata da Londra l'ipotesi di una distinzione istituzionalizzata, e di una collaborazione regolata, tra due Europe, una delle quali condivida con l'altra scelte già compiute in comune e alcuni pilastri condivisi, ma non una “unione sempre più stretta” a cominciare dalla moneta unica e da tutte le sue implicazioni.

Non occorre ripetere qui il lungo catalogo delle formule elaborate da varie parti fin da 25 anni fa, per disegnare soluzioni che consentissero partecipazioni differenziate all'impresa europea. Basta sottolineare che con l'introduzione dell'Euro e con le norme dei Trattati sulle cooperazioni rafforzate, quella differenziazione è già stata accolta in linea di principio ed è divenuta operante. Abbiamo già l'Europa dei 19 e l'Europa dei 9, e l'una dovrebbe camminare con passo più rapido verso obbiettivi che l'altra non intende condividere. La questione è tuttavia assai complessa.
Ha la compagine attuale dell'Eurozona - salvo uscite e nuovi ingressi - omogeneità di intenti e sufficiente volontà politica comune, per costituire il nucleo coerentemente integrazionista e sovranazionale dell'Europa intera, unita sì, ma in diversi gradi ? E a partire da Germania, Francia, Italia c'è determinazione condivisa, e massa critica adeguata, per procedere chiaramente alle decisioni che in molti invochiamo, e che ho via via cercato di richiamare in questo mio intervento ? Questi sono i dilemmi, e sono seri.
Discutiamoli a un livello alto di consapevolezza e nel rispetto delle diverse preoccupazioni e opinioni. La preoccupazione di evitare forzature che possano creare strappi e risultare velleitarie, ha guidato largamente nei passati decenni i comportamenti di uomini come Delors di sicuro protesi verso l'integrazione sovranazionale dell'Europa attraverso successivi avanzamenti e lasciando al processo storico di compiere la sua evoluzione.
Ma possiamo oggi considerare ancora sostenibili un prudente gradualismo, e un'incertezza sugli sbocchi cui giungere al ritmo di marcia che ormai appare indispensabile ? Discutiamone, e lucidamente, pur nel tumulto delle urgenze e di drammatiche insorgenze e senza perderci nel tourbillon di Consigli europei a getto continuo.

Ce la faremo ? Ce la possiamo fare ? Cominciamo innanzitutto col diffondere, più di quanto da tempo facciamo, il senso del molto che abbiamo conseguito e costruito nella nostra Europa, e facciamolo senza il complesso di apparire retori e passatisti, senza nulla concedere a qualsiasi tabula rasa populista. E cominciamo in pari tempo col rimotivare il progetto europeo, partendo dalla realtà del mondo quale oggi si presenta e da un rapporto Europa-mondo da reinventare.
Ma non fermiamoci qui, dominati dal senso delle difficoltà. Se davvero la prova suprema di vocazione e visione politica, la si dà, sia individualmente (ed è stato il caso emblematico di Altiero Spinelli) sia, in qualche modo, su più ampia scala, la si dà ritentando ogni volta l'impossibile, ebbene quello di un'Europa sempre più unita è precisamente l'impossibile che dobbiamo ritentare con tutte le nostre forze. E se si pensa - lasciate che concluda così - al mondo che cambia e ribolle attorno a noi, al mondo che ci ha trasmesso da Parigi il 13 novembre il suo più sinistro segnale, viene spontaneo chiedersi : Europa, se non ora, quando ?
Lectio Doctoralis del Sen. Giorgio Napolitano
in occasione della Laurea Honoris Causa in storia
Università di Pavia
27 novembre 2015

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