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L’Europa sonnambula in cerca di strategie

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L’Europa sonnambula in cerca di strategie

Ci troviamo al centro dell’area più instabile del mondo privi di una strategia di sicurezza comune che associ potere e legittimità, e quindi esposti al sacrificio dei nostri stessi principi. Come sonnambuli, i governi europei non si sono ancora risvegliati da un sonno finito anni fa, quando ancora gli Stati Uniti pur tra molti errori avevano il compito di garantire l’ordine mondiale. I rapporti attuali con la Turchia in materia di immigrazione e di sicurezza, e quelli mutevoli con Mosca - oggi di nuovo tesi per l’invito nella Nato del Montenegro - dimostrano che gli europei hanno perso il loro potere “trasformativo”, cioè di catalizzare il processo di riforma democratica dei Paesi vicini.

L’arretramento europeo sta avvenendo più per assenza di strategia che per mancanza di peso militare. Gli analisti più vicini al Pentagono calcolano che per risolvere la crisi siriana e sconfiggere Daesh sarebbero sufficienti 50mila soldati americani. Nel 1989 Washington inviò ben 30mila soldati per deporre il governo di Panama. Bush padre ne inviò 500mila per recuperare il piccolo Kuwait dalle mani di Saddam. Daesh non può essere un problema, ma dopo i disastri della seconda guerra in Iraq, gli americani hanno cambiato strategia. Troppo difficile garantire l’ordine mondiale dopo l'emergere della Cina; troppo alti i costi economici e politici. La spesa per la difesa è scesa del 15% negli ultimi otto anni e gli aumenti riguardano quasi solamente la sicurezza elettronica, a proposito della quale non c’è analista di Washington che riesca a chiuder occhio la notte.

Senza garanzie americane, si voleva spingere l’Europa a considerare la sicurezza regionale un proprio compito. Un’unione politica europea, possibile fino al 2003, avrebbe creato una strategia di difesa unica. Come sappiamo invece il crescente populismo, il fallimento del progetto costituzionale e la crisi dell’euro hanno invertito il processo di integrazione. Anziché l’Europa, hanno ripreso un ruolo potenze regionali come la Russia, per le quali è vitale controllare risorse naturali.

Ma l’idea che le crisi locali non avessero conseguenze globali era parte di una pigrizia poco innocente. La crisi siriana non ha destabilizzato solo Libano, Giordania e Turchia, ma ha fatto vacillare il governo tedesco e scardinato la libera circolazione in Europa in coincidenza col ritorno del terrore nelle strade di Parigi.

Nemmeno questo spinge i governi europei a costruire una strategia che non sia una risposta all’ultima emergenza. Immigrazione e sicurezza vengono anzi confuse a seconda dei timori delle opinioni pubbliche. Dopo gli attentati a Parigi, Germania e Francia si sono trovate su posizioni diametralmente opposte: Parigi voleva la chiusura delle frontiere e l’intervento militare in Siria, mentre Berlino voleva il contrario. Posizioni legittimate all’interno dei due Paesi, ma tra loro incompatibili. Inevitabilmente si è arrivati a uno strano compromesso: un intervento militare ridotto in appoggio a quello di Mosca e la graduale chiusura dei confini in accordo con Ankara.

Il piano d’azione con il governo turco è stato firmato proprio nelle ore successive all’uccisione di un avvocato che difendeva i diritti dei curdi e nel pieno di proteste per la repressione della libertà di stampa. L’accordo dovrebbe assicurare i confini turco-ellenici per filtrare il passaggio dei profughi dalla rotta anatolico-asiatica e anticipare all’estate 2016 l’intesa che nel 2014 stabilì che cittadini di Paesi terzi arrivati illegalmente in Europa vengano ricondotti in Turchia. Ma nonostante una serie di condizioni poste ad Ankara, non è dato sapere che cosa succeda di milioni di rifugiati respinti: saranno curati? cercheranno altre rotte? Torneranno sui barconi della morte verso il Sud Italia?

Non basta: molti dei rifugiati transitati dalla Turchia passano dalla Serbia, Paese non aderente all’Ue, e Ankara non accetterà quei migranti, ma solo quelli che si trovano in Grecia o che transitano dalla Bulgaria. Finora il 90% dei migranti che Atene riconduce in Turchia vengono respinti.

Un modo per agevolare il rimpatrio di chi sbarca sulle isole greche senza diritto d’asilo è quello di riconoscere la Turchia come uno Stato di provenienza “sicuro” dal punto di vista dei diritti umani, in tale modo il respingimento dei migranti economici o illegali sarebbe automatico in cambio di denari per Ankara. Ma questo significa premiare la deriva autoritaria di Erdogan, fino a rifiutare l’asilo ai curdi che si rifugiano in Europa.

Sarebbe la negazione della strategia di politica estera seguita per vent’anni: quella di essere un “potere trasformativo”, cioè circondarsi di Paesi amici impiegando la propria forza economica per spingere gli interlocutori ad adottare valori di democrazia e rispetto dei diritti civili. Non il contrario. Erdogan ha ottenuto ora una conferenza intergovernativa per l’accesso della Turchia all’Ue, nella quale il controllo sulla qualità democratica di un Paese a crescente ispirazione confessionale sarà inevitabilmente condizionato dall’emergenza migratoria il cui flusso sarà determinato proprio dal governo turco.

Ma è perfino dubbio che gli europei abbiano titolo per ergersi a giudici dei diritti umani in Turchia o in Russia. Negli ultimi mesi, proprio in Europa questi valori sono messi in dubbio. Le condizioni della società ungherese sono diventate molto più simili a quelle delle società turca e russa che a quelle sancite dai primi articoli dei Trattati europei. La svolta autoritaria a Budapest esercita un’attrazione molto forte su Paesi come Polonia e Slovacchia. Una faglia si è aperta tra i Paesi dell’Est e i Paesi fondatori, ma germi di insofferenza per la democrazia si allargano anche in questi ultimi. Uno spirito populista ed anti-europeo può arrivare presto al governo in diversi Paesi.

Proseguire nel sonnambulismo significa preparare l’autodistruzione dell’Europa come presidio dei diritti umani in un mondo aggressivo e disordinato. Ai governi dei Paesi fondatori spetta riprendere le fila dell’Europa, spezzate dopo il fallimento del trattato costituzionale, e riannodarne subito i capi.

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