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Pellegrini, i miei primi 50 anni

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Scenari

Pellegrini, i miei primi 50 anni

Dalle cascine nella Milano del dopoguerra alle mense nelle fabbriche del miracolo economico. Dalla crescita per linee interne alle prime acquisizioni. Dalla concentrazione sul mercato italiano all’internazionalizzazione.

Il Gruppo Pellegrini festeggia i suoi cinquant’anni. E prova ad innovare la sua strategia. Oggi ha 8.050 dipendenti, che l’anno prossimo dovrebbero diventare 8.500. Il fatturato si attesta a 510 milioni, con la previsione per il 2016 di un incremento dell’8 per cento. E genera una ottima redditività industriale, grazie ad un margine operativo lordo pari quest’anno a 40 milioni di euro, stimato in aumento nel 2016 del 10 per cento.

Ernesto Pellegrini ha impiegato cinquant’anni per costruire un gruppo che dalla ristorazione si è evoluto nei buoni pasto e nei servizi e che dall’Italia ha appunto iniziato ad espandersi all’estero – oggi la Nigeria, il Congo, l’Angola e il Mozambico, domani Dubai e Singapore - unendo alla tradizionale crescita per linee interne una disponibilità ad una nuova fase di acquisizioni. Una fase in cui, a Ernesto Pellegrini, si è affiancata come vicepresidente la figlia Valentina.

Questa storia, che è proiettata nell’Italia che cambia, ha le radici in quella cosa febbrile e vitale che è stata l’Italia del Boom. A 23 anni Ernesto Pellegrini è il capocontabile della Edoardo Bianchi Biciclette, stabilimento di Via Fantoli. È figlio di ortolani. Nella Milano del dopoguerra, da Piazza Corvetto a Linate è tutto un susseguirsi di cascine ed è tutta una distesa di campi coltivati. Il papà Pietro e la mamma Maria hanno lavorato dall’alba al tramonto per fargli prendere il diploma di ragioneria. Alla sera Ernesto frequenta Economia e Commercio alla Cattolica. Di giorno in ufficio sbriga le pratiche con rapidità. «All’ora di pranzo – ricorda Pellegrini - avevo assolto a tutti i miei compiti. Chiesi altro da fare al pomeriggio. I miei capi mi dissero: “tu che sai parlare con gli altri e sai risolvere problemi, perché non dai una mano al capo della Commissione Interna?”. Era il leader del sindacato, che un giorno mi fece una proposta: “In questo stabilimento manca la mensa. Perché non prendi tu la gestione? Io ho una amica, Maria, che fa la cuoca”. Non sapevo nulla di mense. Non sapevo nemmeno cucinare. Ma sapevo di avere sempre desiderato, nel mio cuore, di diventare imprenditore». Il giovane Ernesto si licenzia. Riceve un assegno di 150mila lire dalla Edoardo Bianchi, che diventa il tesoretto con cui iniziare la nuova attività. E, così, con la cuoca Maria detta Mariuccia e altri sei dipendenti, si butta.

«Dopo un anno – ricorda oggi – avevo acquisito le commesse di tre aziende. Non solo la Edoardo Bianchi Biciclette, ma anche il Tubettificio Ligure di Abbadia Lariana, in provincia di Lecco, e la Casa Editrice Universo di Milano, che pubblicava Monello e Grand Hotel». All’origine di quel primo rapido consolidamento ci sono due ragioni: la maniacale attenzione organizzativa di Pellegrini e il meccanismo di finanza di impresa che diventa essenziale – per un neoimprenditore figlio di ortolani che non ha capitali familiari alle spalle – per gestire la quotidianità e costruire il domani. «Allora – rileva Pellegrini – gli operai e gli impiegati pagavano in contanti. Trecentocinquanta lire a testa per il primo, il secondo e il contorno, senza pane. Io pagavo i miei fornitori a 30 giorni. Ero sempre cash».

La crescita lineare del fatturato e del numero di mense gestite incrocia i cambiamenti sociali e le esigenze del mercato: negli anni Settanta a pagare non è più il dipendente, ma l’azienda. Dunque, i tempi di incasso passano a 90-120 giorni. Inoltre, le imprese chiedono al Gruppo Pellegrini di investire nelle cucine. Diventa naturale un rapporto con le banche che, però, ha sempre un tratto virtuoso: le banche come soggetti finanziatori e non come vincolo e dipendenza.

Il gruppo guadagna molto bene. Non a caso, in una vicenda in cui la storia imprenditoriale si intreccia con la passione personale, Pellegrini nel 1984 acquista l’Inter. Quell’Inter che aveva visto per la prima volta giocare al Meazza, all’età di 14 anni, in una partita vinta con la Juventus per sei reti a zero. La terrà fino al 1994. «Sono stati dieci anni di felicità personale», dice con gli occhi che brillano, mentre ricorda lo scudetto dei record della stagione 1988-1989 (58 punti in 34 gare), la Supercoppa italiana del 1989 e le due edizioni della Coppa Uefa del 1991 e del 1994. Rummenigge, Matthäus, Klinsmann e Brehme. «Ed è stato anche un buon investimento – sottolinea – grazie alla notorietà e alla identificazione con una squadra tanto prestigiosa e così nel cuore di Milano e degli italiani».

Cuore. Non solo come passione per il lavoro. Non soltanto come anima meneghina di chi non si sente mai differente verso chi ha più di lui, perché pensa che con il lavoro può realizzarsi e fare bene («in azienda, a vent’anni, cercavo sempre di incontrare, anche solo per salutarlo, l’ingegner Ferruccio Quintavalle, che con gli Agnelli e con i Pirelli aveva fondato l’Autobianchi»). Ma come amore civile per gli altri. È il caso del ristorante Ruben, dal nome del contadino amico dei genitori di Pellegrini morto assiderato in una baracca quando i palazzoni sorsero al posto dei campi, dove dal lunedì al sabato sono serviti di sera fra i 350 e i 400 pasti, un euro a testa il prezzo per gli adulti, nulla per i bimbi. Ruben è al Giambellino. E Pellegrini Ernesto, imprenditore e milanese, sembra proprio uscito da una canzone di Giorgio Gaber.

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