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Rese dei conti all’ombra del Califfo

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l’analisi

Rese dei conti all’ombra del Califfo

Prima di abbattere il Califfato ci sarà un’altra resa dei conti. Perché la stampa Usa e britannica, dopo gli articoli sul petrolio siriano di qualche giorno fa, non ne parla? Forse non è un caso: la produzione del Califfato non incide, si tratta di poche migliaia di barili acquistati dai turchi e da Assad.

Il petrolio è solo il tentativo di trovare un casus belli: la Russia vuole punire Erdogan anche militarmente e forse darà armi ai curdi siriani e del Pkk come fece in passato in nome del marxismo-leninismo. I nemici cambiano, le ideologie crollano ma le guerre restano con le loro spine nel fianco. I russi vogliono punire la Turchia e non solo per la Siria. Per un decennio il terrorismo ceceno ha avuto la sua direzione strategica nella Istanbul asiatica: per questo Putin accusa Ankara di uccidere i soldati russi. Siamo alla resa dei conti di una vicenda accantonata e che riaffiora in maniera prepotente: i reciproci scambi di accuse per qualche migliaio di barili appaiono ridicoli a confronto dei miliardi in ballo nei gasdotti del Mar Nero.

I giornali Usa danno poco spazio alla diatriba perché Washington vuole restare fuori da una guerra generata anche dai suoi errori, antichi e recenti. Obama è un’anatra zoppa e non può condurre conflitti allargati per non pregiudicare la possibile rielezione di un democratico. Al punto che il segretario di Stato John Kerry ha chiesto in una riunione all’Osce a Belgrado di inviare truppe di terra siriane e di altri Paesi arabi per combattere l’Isis. I bombardamenti per vincere l’Isis, dice Kerry, non bastano: ma se ne accorge adesso, dopo oltre un anno e mezzo di raid.

Quali truppe arabe intende inviare? Quelle di Assad, che gli Usa vorrebbero mandare via? Quelle dei suoi nemici arabi, che sostengono indirettamente l’Isis? Sfioriamo il vaneggiamento, se non fosse che gli Usa non hanno nessuna voglia di fare questa guerra. A loro va bene così: un sanguinoso stallo tra sciiti e sunniti, con la Russia che brucia risorse belliche, la Turchia che litiga con Mosca e l’Europa che deve imparare a fare da sola perché gli Usa non intendono pagare il 70% dei costi della Nato.

Quanto al rapporto con Ankara, gli Usae sono esausti: hanno trattato per un anno la concessione della base di Incirlik e ora vogliono assestare a Erdogan una lezione. Nel 2013 Erdogan voleva espellere l’ambasciatore Usa ad Ankara Francis Ricciardone e accusava gli Stati Uniti di guidare la «lobby dei tassi di interesse». La stessa vicenda dell’Imam Fethullah Gulen, in esilio in America, rientra nelle tensioni tra Ankara e Washington: c’è stato il tentativo di incrinare dall’interno il potere di E rdogan e del partito islamico l’Akp ed è andato male. Al punto che la Turchia ha persino minacciato di acquistare missili dalla Cina.

Se la Nato volesse difendere davvero il presidente turco non avrebbe ritirato i Patriot. La verità è che gli Stati Uniti non si fidano di lui,

altrimenti Obama non gli ha avrebbe chiesto di chiudere i confini con la Siria, cosa che peraltro i turchi si rifiutano di fare. Non chiediamoci come va la guerra al Califfato ma a chi serve e magari scopriremo che prima di al-Baghdadi cadranno altri birilli del Levante, in Siria e forse anche nella vicina Libia.

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