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Telecom, il conflitto d’interesse di Vivendi

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Telecom, il conflitto d’interesse di Vivendi

Telecom Italia ha avuto il dubbio privilegio di fare da apripista ai maggiori cambiamenti della corporate governance in Italia. Tra le prime società ad essere privatizzata, Telecom è stata la prima oggetto di un takeover ostile, e la prima a sperimentare nel 2013 una mozione di sfiducia nei confronti del consiglio da parte di un’azionista (mozione che non è stata approvata per un pugno di voti). Oggi Telecom si trova di nuovo al centro di una battaglia epocale.

Da un lato Vivendi, che dopo aver acquisito il 20% delle azioni, richiede di aggiungere quattro consiglieri di sua fiducia, dall’altro gli investitori istituzionali (che detengono la maggioranza dei voti in assemblea) che si dichiarano contrari. In mezzo l’attuale consiglio, teoricamente composto per lo più da indipendenti, di fatto molto sensibile ai voleri di Mediobanca, nel cui consiglio siede la 27enne Marie Bollorè, figlia dell’azionista di controllo di Vivendi.

In ballo non ci sono tanto le sorti di Telecom (è inevitabile che finisca inglobata da qualche altro operatore europeo), ma la credibilità della corporate governance in Italia. Oggi gli investitori istituzionali detengono la maggioranza delle azioni in tutte le principali società italiane: da Eni a Generali, da Intesa ad Unicredit. Ma gli azionisti di riferimento sembrano non volersene accorgere. Con maggioranze sempre più esigue si ostinano non solo a nominare la quasi totalità dei consiglieri, ma a fare da padroni, come se le imprese fossero cosa loro. Contrariamente a quanto prevede il codice, gli amministratori delegati vengono scelti al di fuori del consiglio, e solo ratificati dai consiglieri che spesso apprendono i nomi dai giornali. E le maggiori decisioni vengono discusse con gli azionisti di riferimento, violando le regole di riservatezza, come accadde in Telecom quando la decisione di emettere un convertendo fu condivisa con Telefonica prima di essere discussa in consiglio. Questo atteggiamento da padrone di Vivendi in Telecom non è diverso da quello di Mediobanca in Generali, delle Fondazioni Bancarie in Unicredit e Intesa, e dello Stato in Eni, Enel e Finmeccanica. Ma non per questo è un atteggiamento legittimo. Un azionista rilevante ha il diritto di essere rappresentato in consiglio, ma non necessariamente di comandare. Ed anche il diritto di rappresentanza può essere limitato se, come in questo caso, l’azionista ha degli interessi conflittuali. Vivendi cerca canali di distribuzione per i suoi contenuti (musica e film) e Telecom è nel business della distribuzione di qui contenuti. Potrebbe essere un buon matrimonio, se Vivendi si comprasse il 100% di Telecom, ma con una quota del 20% il rischio di abusi nei confronti del rimanente 80% è molto elevato.

Finora gli investitori istituzionali hanno lasciato fare. In numerose assemblee, tra cui quella di Telecom, hanno scientemente limitato il numero di consiglieri della loro lista per non avere la maggioranza dei consiglieri e quindi la responsabilità di nominare il management. Il desiderio di mantenere la stabilità al vertice ha sempre prevalso. Ma questo ragionamento non vale più. La richiesta di Vivendi presuppone un desiderio di cambiare i vertici dell’azienda. Il desiderio di continuità dei fondi gioca a favore dell’attuale consiglio. Vivendi ha sufficienti diritti di voto per richiedere i quattro posti in consiglio, ma non abbastanza per ottenerli se gli investitori istituzionali si oppongono. Costoro generalmente votano secondo le indicazioni dei maggiori proxy advisor, che si sono già pronunciati contro la proposta di Vivendi. Ai proxy advisor non piace – e come dar loro torto—che tre dei quattro siano dipendenti di Vivendi (in un caso si tratta dell’amministratore delegato), una società con interessi potenzialmente in conflitto con quelli di Telecom. I proxy advisor sono anche contrari ad un ampliamento del consiglio. Con 13 membri, il consiglio di Telecom è già al di sopra della dimensione ottimale (tra i 9 e gli 11). Con 17 membri il consiglio rischia di diventare ingovernabile.

Se non bastasse, la nomina dei quattro nuovi consiglieri proposti da Vivendi ridurrebbe la proporzione di amministratori nominati dagli investitori istituzionali al di sotto di quella prevista dallo statuto. Non si capisce neppure come il consiglio ( a maggioranza) abbia deliberato il proprio sostegno alla richiesta, quando questa è in contrasto con lo statuto.

Se tutti gli investitori istituzionali voteranno secondo le direttive dei proxy advisor, la proposta di Vivendi sarà bocciata. Ma il risultato non è scontato. Vivendi cercherà alleati. Ma non potrà farlo apertamente. Se mai dovesse coordinarsi con investitori che detengono più del 5%, eccederebbe le soglie di controllo che impongono un’Opa obbligatoria su tutto il capitale Telecom. Un rischio che non può correre. D’altra parte non può permettersi di perdere, perché vanificherebbe parte del beneficio del suo investimento. Il rischio è di una manovra sottobanco. Speriamo che – una volta tanto —la Consob la impedisca. Solo così il mercato borsistico italiano farebbe un passo avanti.

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