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La responsabilità sociale conquista il business

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La responsabilità sociale conquista il business

Che la responsabilità sociale d’impresa abbia riconquistato negli ultimi mesi un profilo di primo piano nelle politiche aziendali non desta sorpresa, soprattutto alla luce delle conseguenze a cascata dello scandalo internazionale “Dieselgate”, con annesso il tanto annunciato quanto inedito contenzioso tra grandi azionisti ed ex top management del gruppo automobilistico Volkswagen. Sta di fatto che recentemente sono state pubblicate diverse ricerche che indicano univocamente la Csr e le pratiche di sviluppo sostenibile come valori fondanti del business, ben oltre il ruolo reputazionale e di marketing che hanno fin qui prevalentemente giocato. Ne segnaliamo due, che assumono rilievo principalmente perché riferite a due categorie specifiche di stakeholders: i manager e i consumatori.

La prima indagine rileva che per il 92% dei dirigenti italiani (su un campione di 400 unità rappresentativo del settore terziario privato) il ruolo professionale implica una precisa responsabilità nei confronti della società. Le principali motivazioni indicate sono, nell’ordine: mettere a disposizione competenze qualificate (59%), farsi portavoce delle necessità altrui presso interlocutori privilegiati (38%), porre al servizio della collettività il network professionale e relazionale esterno all’azienda (31%), offrire consulenze gratuite (25%). Gli obiettivi più gettonati risultano, a loro volta, sviluppare la cultura della legalità (47%), migliorare la qualità della comunità (44%) e favorire il trasferimento di competenze (38%).

La ricerca è stata promossa da Prioritalia - sigla che associa Cida, Federmanager, Fenda, Fidia e Manageritalia - e realizzata con il contributo della stessa Manageritalia, di Astraricerche e dell’Osservatorio Socialis di Roma. «Da tempo - spiega Marcella Mallen, presidente di Prioritalia - riceviamo sollecitazioni da parte degli associati per fare qualcosa di concreto in tema di responsabilità sociale. Perché non possiamo pensare che siano sempre gli “altri”, politica e istituzioni, ad agire. La nostra missione è proprio quella di attrarre questa voglia di “dare” del management italiano, organizzarla e valorizzarla».

La seconda indagine riguarda, invece, l’atteggiamento dei consumatori e deriva da una Global Survey sulla responsabilità sociale condotta dalla multinazionale Nielsen. Ne emerge, in estrema sintesi, che nel nostro Paese i consumatori disposti a pagare un differenziale di prezzo per acquistare un brand sostenibile sono quest’anno il 52%, in crescita rispetto al 44% del 2013 e al 45% del 2014. Analogo il trend generale: su scala mondiale la quota sale al 66% (più 11 punti percentuali rispetto al 2014 e più 16 rispetto al 2013), mentre in Europa si attesta al 51%, comunque oltre la metà del campione intervistato. Non solo: le imprese impegnate nella sostenibilità ambientale e sociale dichiarano per il 2015 un incremento del fatturato intorno al 4%, contro un modesto +1% delle altre.

«I consumatori hanno raggiunto un livello di consapevolezza in tema di responsabilità sociale e ambientale che diventa determinante nelle scelte d’acquisto – commenta l’amministratore delegato di Nielsen Italia, Giovanni Fantasia - e si attendono un’analoga sensibilità da parte dei produttori. Per questo motivo la sostenibilità dei beni di largo consumo è da considerarsi non più solo un valore aggiunto del prodotto e del brand, bensì un requisito essenziale del business». In definitiva «non si può più parlare della sostenibilità – conclude Fantasia - come di un semplice differenziale di marketing».

Quali considerazioni trarre dai risultati di queste ricerche, così diverse eppure così affini? Secondo Roberto Orsi, direttore dell’Osservatorio Socialis, «c’è stata una forte crescita di attenzione intorno ai temi della responsabilità sociale delle imprese sia da parte delle aziende stesse, sia da parte dei consumatori. Quello che finora è mancato è un riconoscimento più deciso da parte delle amministrazioni pubbliche e dei governi centrali, a fronte di investimenti economici significativi, il cui impatto è sotto gli occhi di tutti, se si pensa che solo in Italia siamo passati dai 450 milioni di euro del 2001 a un miliardo nel 2014, secondo i dati del sesto rapporto sull’impegno sociale delle aziende elaborati dal nostro Osservatorio».

Ora però, secondo Orsi, siamo di fronte a un’occasione storica: «Occorre recepire al più presto la direttiva Ue 95/2014 sul reporting non finanziario, che dovrà trovare applicazione dal 2017. L’Italia può diventare la guida d’Europa su questo terreno, e le imprese che producono nel nostro Paese devono farsi trovare pronte a raccogliere i frutti del proprio sforzo».

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