Lo scorso 4 dicembre, per la terza volta consecutiva, è fallito il vertice Opec e i prezzi hanno ripreso a scendere verso i minimi da 7 anni sotto i 38 dollari per barile. Come sono lontane le previsioni del giugno 2014, quando tutti davano per scontato un aumento verso i 150 dollari, dagli allora 110, per effetto dell’espansione in Iraq dell’Islamic state (Isis).
Sembrava possibile potesse conquistare la capitale Baghdad e poi arrivare sui porti del sud di Bassora, da dove partono ogni giorno 3 milioni di barili per il mercato internazionale. Ad un anno e mezzo di distanza, invece, i prezzi sono inferiori di due terzi e la causa è sempre l’Isis. Per fermare questi fondamentalisti, Obama è stato costretto a scendere a patti con l’Iran, ma l’Arabia Saudita si è sentita tradita dal suo storico alleato americano, proprio con un accordo con il suo principale nemico. Spaventata, per non sbagliarsi, ha ribadito il suo primato regionale attraverso l’affermazione del suo dominio planetario sui prezzi della commodity più importante al mondo, il petrolio. Nel vertice del novembre 2014 non solo non ha ridotto la produzione, come sarebbe stato richiesto dal rallentamento della domanda, ma l’ha addirittura aumentata, facendo crollare i prezzi.
Se volesse, all’Arabia Saudita basterebbe poco per riportare i prezzi su un trend crescente. L’eccesso di offerta attualmente è intorno a 1,5 milioni di barili al giorno, più o meno lo sforamento dal tetto Opec di 30 milioni. La produzione Opec complessiva rimane a livelli record vicini ai picchi di 35 anni fa. Una riduzione di 1-1,5 milioni di barili al giorno si potrebbe facilmente spalmare su tutti i Paesi. Come altre volte in passato, un accordo verrà trovato, visto che è interesse di tutti arginare il crollo, ma tale scelta necessita di almeno un anno e mezzo di sofferenza sulle entrate, per far maturare la sufficiente coesione. Tutto è rinviato alla riunione del prossimo 2 giugno 2016, ma dovessero scendere i prezzi sotto i 30 dollari, verrebbe convocata una riunione straordinaria. D’altra parte, è difficile che si possa arrivare ad un accordo fino a quando l’Iran non tornerà sul mercato internazionale, cosa che dovrebbe accadere solo dopo le elezioni di febbraio 2016 e con il pieno rispetto di tutte le condizioni dell’accordo sul nucleare. Una volta che la sua produzione aumenterà di nuovo verso 3,5 milioni barili al giorno, un aggiustamento da parte degli altri Opec è più probabile e anche l’Arabia Saudita farà un gesto di lungimiranza, a favore del suo prestigio, riducendo la sua.
In Europa gli effetti dei bassi prezzi del petrolio sono quasi tutti positivi, se si eccettuano le pressioni deflattive. Vi sono 300 milioni di automobilisti, di cui 35 milioni sono italiani, e vedere i carburanti a nuovi minimi restituisce loro fiducia, quella che manca da anni per far ripartire i consumi. Nel ponte dell’Immacolata, a giudicare dalle lunghe code sulle autostrade, in particolare verso l’Austria, sembra che ciò stia accadendo, anche perché molti, oltre ad andare ai mercatini di Innsbruck, gradiscono fare il pieno all’estero dove i prezzi, per minori tasse, sono inferiori di 30 centesimi al litro rispetto ai nostri. Il gasolio ad esempio si colloca su 1,05 euro per litro contro i nostri 1,35. È una forma in miniatura di turismo fiscale che deriva dall’eccesso di tasse nel nostro Paese che tutti a parole vorremmo più basse, ma che non si possono toccare fino a quando non si taglia la spesa. Rattrista assistere alle solite accuse delle associazioni dei consumatori circa la doppia velocità delle compagnie per cali inferiori alla pompa rispetto al mercato internazionale, mentre poco si occupano del fisco, proprio loro che per finanziarsi attingono anche alle casse pubbliche. Al netto delle tasse, i prezzi alla pompa hanno il solito differenziale di 18 centesimi rispetto al prezzo internazionale della benzina, pertanto non c’è alcun ritardo. Meglio sarebbe che si battessero per evitare tentazioni di ulteriori aumenti di tasse, molto diffuse in questo periodo di sinistre riflessioni sull’utilità di tassare i combustibili fossili per salvarci dai supposti cambiamenti climatici.
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