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Dopo il salva-banche arriva il salva-perdite

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IL COMMENTO

Dopo il salva-banche arriva il salva-perdite

L’Italia torna in soccorso delle vittime di truffe finanziarie. Dopo il fondo per il «risparmio tradito» creato quasi 10 anni fa dall’allora ministro Giulio Tremonti, è ora il ministro Padoan a riprovarci.

Tremonti, come si ricorderà, confiscò 800 milioni di euro dai conti correnti dormienti presso le banche per destinarli a un fondo di solidarietà per i risparmiatori truffati: l’operazione fu accolta con grande tripudio di popolo, ma si rivelò poi troppo complessa da gestire. Il fondo sparì nel nulla e la stessa sorte toccò agli 800 milioni per i truffati: come furono spesi è ancora un mistero. Anche per questa ragione l’ipotesi di un nuovo «fondo umanitario» per risarcire (almeno in parte) gli investitori danneggiati dalla crisi delle quattro banche locali salvate d’urgenza con il decreto 180/2015 desta più di una perplessità. Non solo perchè il risarcimento andrebbe chiesto in tribunale a chi ha truffato e non ai contribuenti, ma anche perchè sarà molto difficile individuare chi ne ha veramente diritto e chi no: la selezione avverrà sulla base dei redditi o sulla base dell’età? Avrà la precedenza chi dimostrerà di aver perso tutti i risparmi o basterà averne bruciati solo una parte? Sarà sufficiente dimostrare la propria inadeguatezza quanto a educazione finanziaria o si dovrà dimostrare di essere stati ingannati o costretti a comprare bond subordinati dalla banca? E infine, sarà forse la dichiarazione dei redditi il parametro per entrare tra i casi umanitari?

Se l’operazione andrà avanti, insomma, si darà sollievo a qualche migliaio di risparmiatori, ma non è ancora chiaro a quale prezzo per il Governo, per il mercato, per i contribuenti e per gli stessi rapporti tra Italia e Europa. Oggi stupisce soprattutto la facilità con cui in Parlamento e in Piazza si affronta il problema. Gli stessi che fino a pochi anni fa inveivano contro i salvataggi bancari con denaro pubblico, chiedono ora il ritorno dello Stato nelle crisi bancarie. Senza contare l’indennizzo di Stato per gli investimenti sbagliati: l’idea che siano i contribuenti italiani a risarcire con le proprie tasse le perdite subite da investitori privati in operazioni con controparti private ha messo in allarme persino Bruxelles. In gioco non c’è solo la credibilità di un quadro di regole approvate da tutti gli Stati membri dopo il bagno di sangue della crisi finanziaria (3.800 miliardi di euro in garanzie di stato sui prestiti alle banche, pari al 30% del Pil europeo, oltre 450 deroghe alle norme sugli aiuti di stato in appena 4 anni), ma la stessa credibilità delle sue istituzioni più importanti, a cominciare dalla Bce.

Le regole sulle crisi bancarie sono state varate proprio per proteggere il denaro dei contribuenti dagli eccessi di rischio dei banchieri. Chi sbaglia paga è ora la prima regola: vale per le banche come vale per gli investitori, a cui la legge italiana (grazie all’Europa) riconosce il pieno diritto di rivalersi in tribunale contro gli ex amministratori delle banche. La legge non ammette ignoranza, il risparmio sì: la direttiva Mifid impone infatti agli intermediari di vendere ai clienti solo prodotti di cui possono capire la rischiosità e con importi sostenibili in funzione del reddito. In caso contrario, scattano non solo le sanzioni della Consob, ma anche le cause risarcitorie. Accusare il governo di aver truffato i risparmiatori con il decreto salva-banche è invece abbaiare alla luna: pretendere il risarcimento una chiara forzatura giuridica.

Nel caso specifico, c’è anche chi accusa la Consob e la Banca d’Italia di omessa vigilanza e quindi di essere i maggiori responsabili delle perdite subite dagli investitori. In realtà la situazione è più complessa. Se nei prospetti dei bond era scritto a chiare lettere che il rischio di perdere il capitale era altissimo, è stato infatti il risultato della vigilanza Consob: l’authority è responsabile della valutazione della rischiosità di un prodotto, ma poichè parliamo di banche non ha titolarità sulla rischiosità dell’emittente. In pratica la Consob vigila sui bond, ma è la banca d’Italia che controlla la solidità dell’emittente. Questo dualismo non è più sostenibile: la necessità di una vigilanza per finalità assegnata a una sola autorità, come chiede la stessa Consob, è un problema che governo e Parlamento dovranno affrontare per evitare che si ripetano fratture regolatorie come quelle appena emerse.

Per concludere, l’idea di un risarcimento per i truffati dalle banche è politicamente e socialmente utile per un governo sotto pressione, ma rischia seriamente di produrre altri danni. Non solo per il precedente che crea, ma anche per il danno morale che genera tra i risparmiatori: a che serve valutare i rischi di un bond o di un titolo se la perdita è poi coperta con l’aiuto dello Stato?

Dopo gli scandali della Cirio e della Parmalat, e soprattutto dopo il crollo della Lehman Brothers, sembrava quasi che il risparmiatore italiano - già bruciato dalle perdite subite con i bond argentini, Alitalia, Giacomelli, Laveggia, Finpart o Finmec - avesse finalmente assorbito la lezione del «Caveat emptor»: prima di comprare qualcosa, pensa bene ai rischi che corri. Che si tratti di azioni, obbligazioni, fondi, polizze o derivati poco cambia: più è alto il guadagno atteso da un investimento, più è importante capirne e valutarne il rischio che comporta.

Archiviata la crisi greca, insomma, a Bruxelles e Francoforte sembra essere rimasta una sola spina nel fianco: la riottosità italiana ad adeguarsi alle regole. Non agli impegni sulle riforme, che in larga parte e con grandi sacrifici sono state onorate dal governo e accettate dagli italiani, ma a quelle regole che vanno oltre i confini nazionali, che armonizzano normative e procedure nei rapporti tra Stati, imprese e mercati, e che soprattutto tolgono ai sistemi nazionali la possibilità di risolvere in casa crisi e problemi che richiedono approcci sistemici. E il credito, come dimostrano le vicende del piano salva-banche, sono esattamente in questa categoria. Convincere l’opinione pubblica che una banca può fallire come ogni impresa, e che il suo eventuale salvataggio non può più essere scaricato sui contribuenti è una strada obbligata. Per questo il fondo umanitario non può essere considerato come una soluzione italiana a un problema europeo: è solo una toppa ai ritardi italiani nell’educazione finanziaria.

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