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L'università italiana ha messo la retromarcia

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Rapporto Fondazione Res

L'università italiana ha messo la retromarcia

Negli ultimi sette anni l'università italiana ha conosciuto una trasformazione profonda, lungo linee assai diverse da quelle dei decenni precedenti e non priva di elementi di preoccupazione. All'analisi di questa trasformazione è dedicato il Rapporto 2015 della Fondazione Res (presieduta da Carlo Trigilia) «Nuovi divari. Un'indagine sulle università del Nord e del Sud», che si presenta stamattina a Palermo. Il rapporto, coordinato da chi scrive e curato da una ventina di ricercatori di diverse istituzioni italiane, ricostruisce un quadro dettagliato e aggiornato di immatricolazioni, mobilità e carriere degli studenti; diritto allo studio; offerta formativa e corsi di studio; numero ed evoluzione dei docenti; attività di ricerca e di trasferimento tecnologico; meccanismi di governo e di finanziamento.

Ne emergono tre grandi questioni. La prima attiene alla dimensione complessiva del sistema: negli ultimi sette anni l'università italiana si è ridotta del 20%, in termini di studenti, docenti, corsi di studio, finanziamento pubblico. L'Italia ha quindi realizzato un grande disinvestimento sulla sua formazione superiore: a partire da dimensioni già molto più contenute di quelle degli altri paesi europei, e con una intensità che non ha confronti neanche in quelli più colpiti dalla crisi. L'Italia investe oggi meno di 7 miliardi nella sua università, la Germania 26; l'Italia ha ridotto l'investimento del 22%, la Germania l'ha aumentato del 23%.

La seconda attiene alla sua qualità. Pur in un quadro nel quale la qualità delle università italiane appare allineata a quella di molte istituzioni internazionali paragonabili, emergono, e per alcuni versi si aggravano, persistenti criticità: un limitatissimo diritto allo studio e un notevole aumento della tassazione degli studenti (che ormai colloca l'Italia al vertice dei paesi dell'Europa continentale), con meccanismi di selezione all'accesso sempre più basati sul censo; una alta dispersione degli studenti, con tempi molto lunghi per l'acquisizione del titolo; un'offerta formativa che si è ridisegnata principalmente in base al pensionamento di parte dei professori, sostituiti solo in misura limitata; un corpo docente anziano; un modesto trasferimento tecnologico.

La terza, centrale, riguarda vecchi e nuovi divari territoriali. L'università delle regioni meridionali, (e per alcuni versi anche di quelle centrali), sconta minori immatricolazioni e una dinamica della popolazione giovane non favorevole; un'accentuata emigrazione di studenti, pur diversissima per province di origine; percorsi di studio più lenti; una “qualità rivelata” inferiore rispetto al Nord dei propri docenti (così come mostrata dai dati sulle abilitazioni nazionali su cui il rapporto presenta un'analisi originale), indice di processi di reclutamento – quantomeno nel passato – assai discutibili. Ancora, una qualità delle pubblicazioni scientifiche, sempre in comparazione con il Nord, complessivamente inferiore, anche se con una forte variabilità fra atenei e fra aree scientifiche all'interno degli atenei.

Le politiche universitarie degli ultimi sette anni, condotte con sorprendente continuità da governi di colore molto diverso, stanno aggravando significativamente questi divari. La riduzione del Fondo di Finanziamento Ordinario, e la sua ripartizione con nuovi criteri, sempre variabili e tutti discutibili, ha colpito particolarmente le università del Centro-Sud, e in misura ancor più accentuata quelle delle Isole. Molti di essi, come le carriere degli studenti o la partecipazione all'Erasmus, dipendono molto dai contesti. Il limitato turnover dei docenti, poi, è stato assai differente fra sedi, anche in base ad indicatori territorialmente connotati come il gettito della contribuzione studentesca; lo stesso reclutamento dei nuovi professori abilitati è stato molto maggiore al Nord rispetto alle altre circoscrizioni del paese. Tutto ciò non aiuta a superare inefficienze: rende l'università del Sud molto più piccola, ma non per questo migliore.

Il rapporto ha il fine di sollevare una discussione attenta su questi, e su altri importanti aspetti della trasformazione dell'università italiana: i cambiamenti, pur molto profondi, sembrano avvenire senza un chiaro disegno degli obiettivi da raggiungere (l'università italiana deve assomigliare più a quella tedesca o a quella inglese?). Anche perché si sono innescati meccanismi cumulativi: ogni indicatore utilizzato influenza gli altri e insieme determinano un esito accentuato e sempre nella stessa direzione; meccanismi che stanno portando ad una configurazione del sistema molto diversa rispetto a quella di dieci anni fa. Un'università molto piccola, molto più sperequata territorialmente, ma non necessariamente di migliore qualità. La presenza di una università forte, in grado di dialogare con le imprese, e di molti laureati di qualità è una condizione imprescindibile per competere nell'economia di oggi e di domani; e lo è ancor più nelle aree relativamente più deboli del paese.

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