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Sostenibilità poco trasparente

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Sostenibilità poco trasparente

  • –Elio Silva

Comunque la si voglia giudicare quanto a risultati, la Conferenza di Parigi sui cambiamenti climatici ha avuto l’indubbio merito di riportare il tema della sostenibilità al centro dell’attenzione dei grandi decisori mondiali. Il livello di attenzione, di condivisione, di responsabilità sono di gran lunga cresciuti e, quanto meno nella capacità di alert, si sono rafforzate le cinghie di trasmissione con e tra i diversi stakeholders, in primis attori pubblici, organizzazioni della società civile e mondo delle imprese.

Le politiche di sostenibilità, però, non hanno solo problemi di identificazione, pianificazione strategica e realizzazione, ma anche di rendicontazione. E sotto questo profilo, se è indubbio che il Csr Reporting è ormai la regola tra i grandi gruppi globali, è altrettanto vero che la qualità non sta migliorando in modo sostanziale e, per di più, la crescita è trainata dall’area asiatica, dove sono recentemente entrate in vigore norme di legge ad hoc. Il che significa che a comandare il gioco è la regulation più che l’impulso autonomo delle società.

Ad affermarlo è il Rapporto biennale del network Kpmg sul “Corporate Responsibility Reporting” delle prime 250 aziende mondiali (G250), pubblicato con indubbia tempestività alla conclusione dei lavori della Conferenza di Parigi. L’analisi è tra le più accreditate in materia, sia perché l’arco temporale della ricerca conta ormai oltre vent’anni di rilevazioni (la prima indagine risale al 1993), sia perché le 250 multinazionali classificate hanno una reale, rilevante influenza sul trend globale e rappresentano la scrematura di un ben più vasto campione di 4.500 società di 45 Paesi, tra cui l’Italia.

Secondo l’indagine, benché l’80% dei gruppi fornisca una qualche rendicontazione sul tema delle emissioni inquinanti, la tipologia e la qualità delle informazioni riportate risultano ancora troppo eterogenee, talvolta prive della necessaria consistenza. Per esempio, nei bilanci di sostenibilità circa la metà delle G250 riportano target di riduzione di gas serra senza spiegare in modo dettagliato né come questi obiettivi sono stati selezionati, né come saranno raggiunti.

Per quanto riguarda le emissioni di carbone, cui viene dedicato un focus specifico, «c’è chiaramente bisogno di migliorare, e sarebbe davvero utile poter disporre di linee guida globali sul Reporting», afferma Wim Bartels, responsabile dell’area Sustainability per l’intero network Kpmg. Per la verità qualche cosa si sta muovendo: il Financial Stability Board, per esempio, ha proposto una task force per incrementare la trasparenza, mentre il Cdsb, acronimo del Climate Standards Disclosure Board, ha emanato linee guida volontarie. Tuttavia, insiste Bartels, «le società non devono essere lasciate sole nell’immaginare la rendicontazione: tutti gli stakeholders, dagli investitori ai regolatori pubblici, hanno un ruolo da giocare».

In tema di emissioni inquinanti, le aziende europee presentano la migliore qualità dell’informazione, mentre le cinesi risultano le meno trasparenti. A livello settoriale, al top della graduatoria sulla rendicontazione ci sono le società dei trasporti; all’opposto, nell’industria mineraria e chimica ancora oggi un’impresa su cinque non produce alcun report. Di un certo interesse anche l’analisi sull’arco di tempo dichiarato per centrare gli obiettivi di riduzione delle emissioni: la maggioranza delle aziende (55%) si concentra fra i 6 e i 12 anni, mentre gli obiettivi delle politiche pubbliche , tarati per lo più sul 2030, hanno un timeframe più lungo.

Lo studio prende in considerazione anche l’andamento generale dell’informativa sulla Csr. Per quanto possa sembrare paradossale, i progressi più rilevanti nell’ultimo biennio si sono registrati nell’area Asia-Pacifico, dove sono entrate in vigore norme con forza di legge. «In realtà – spiega Piermario Barzaghi, responsabile dell’area Sostenibilità in Kpmg Italia – queste misure si devono in gran parte alla spinta dei Paesi più sviluppati che, dovendo gestire il rischio reputazionale connesso alle catene di fornitura, hanno convinto gli emergenti a politiche più attive».

Sta di fatto che, nella graduatoria globale sui tassi di pubblicazione della reportistica, una pattuglia di Paesi orientali (India, Indonesia e Malesia) ha affiancato le tradizionali punte avanzate della trasparenza, Gran Bretagna, Francia e Norvegia, oltre al Sudafrica, dove la quota raggiunge il 99% - ma, anche in questo caso, per effetto di normative vincolanti. Quanto all’Italia, si colloca al 22° posto su 45 Paesi considerati.

«Siamo molto lontani dalle situazioni migliori – commenta Barzaghi – soprattutto per la mancanza di obiettivi e standard condivisi. Ora però abbiamo una grande opportunità, rappresentata dal fatto che anche il nostro Paese deve recepire la direttiva comunitaria sul non financial reporting, che entrerà in vigore nel 2017. Sarà l’occasione per capire se, oltre alle parti, anche il Governo e il Parlamento credono realmente nell’importanza della trasparenza e intendono incentivarla».

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