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La Ue e i rischi di «germanizzazione»

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LA RIFORMA NECESSARIA

La Ue e i rischi di «germanizzazione»

Prima nell'incontro dei capi di governo socialisti e quindi nella riunione del Consiglio europeo dei 28 capi di governo, il nostro primo ministro ha reso pubblico il malessere del governo italiano nei confronti delle scelte politiche dell'Unione Europea (UE). Non è la prima volta che un capo di governo mette in discussione in modo esplicito gli equilibri politici formatesi al suo interno. Ma questa volta Renzi ha messo il dito sul problema dei problemi: la «germanizzazione dell'Unione». A mio parere tale critica è giustificabile ma, se non sarà sostenuta da un disegno istituzionale, potrebbe rivelarsi addirittura controproducente .

Vediamo perché quella critica è giustificabile. Se é vero che l'Ue si basa sul consenso, due fattori hanno però messo in discussione quest'ultimo. Innanzitutto, la successione di crisi esistenziali che si sono susseguite negli ultimi anni (tra cui quella dell'euro e i dei rifugiati siriani, per non parlare di quella del terrorismo). In secondo luogo, la decisione (formalizzata nel Trattato di Lisbona del 2009) di affidare ad un metodo intergovernativo la gestione delle politiche che fanno i conti con quelle crisi esistenziali. Un metodo intergovernativo rappresentato dal monopolio decisionale del Consiglio europeo dei capi di governo. Per il Trattato di Lisbona, in quest'ultimo organismo si sarebbero dovute trovare le mediazioni necessarie per governare consensualmente politiche comuni con forti implicazioni nazionali, in particolare sul piano elettorale. La combinazione di questi due fattori ha fatto saltare la logica consensuale. A fronte della crisi dell'euro, il consenso è stato sostituito da una contrapposizione senza precedenti tra paesi creditori e paesi debitori, al punto da mettere in discussione la loro coesistenza all'interno dell'Eurozona.

In particolare la Germania si è imposta con il suo modello politico-economico e le sue preferenze di policy fino al punto di ipotizzare l'uscita della Grecia dall'Eurozona. A fronte della crisi dei rifugiati siriani, il consenso è stato sostituito da una contrapposizione senza precedenti tra paesi dell'est e dell'ovest, ma anche del nord e del sud. Di nuovo è stata la Germania a politicizzare tale crisi, proponendo una soluzione (l'accettazione e distribuzione dei rifugiati nei paesi Ue) che altri pesi hanno considerato inaccettabile. Non è importante, qui, entrare nel merito delle scelte (ad esempio, ritengo sbagliata la posizione tedesca sulla Grecia, ma corretta quella sui rifugiati siriani). Ciò che interessa, piuttosto, è mettere in evidenza la costante egemonia tedesca sul funzionamento dell'Ue.

In assenza di un baricentro politico efficace e legittimo a Bruxelles, il metodo intergovernativo, nelle condizioni di una crisi multipla, ci ha riportato alle divisioni e alle gerarchie tra gli stati. Infatti, quando una crisi ha profondi effetti redistributivi, allora i paesi più grandi cercano di imporre la loro visione e i loro interessi sugli altri paesi, sui piccoli o su quelli percepiti come politicamente deboli. E ciò che ha fatto con successo la Germania che, dopo l'unificazione del 1990, è ritornate a perseguire il suo interesse nazionale, anche a costo di scuotere dalle radici il progetto di integrazione sovranazionale che essa stessa aveva voluto “a sua protezione”. Dietro la nuova Germania c'é un'opinione pubblica interna divenuta poco solidale verso gli altri paesi, ma anche istituzioni costituzionali (come il Tribunale federale, la Banca centrale, lo stesso Bundestag) che hanno costantemente alzato le condizioni nazionali per il proseguimento del processo di integrazione. Il cancelliere Merkel è allo stesso tempo la rappresentante ma anche la prigioniera di tale sistema di condizionamenti nazionali. Poiché la Germania è un paese forte, è stato possibile (per il suo cancelliere) scaricare all'esterno i propri vincoli interni.

Una possibilità preclusa ad altri paesi, naturalmente. Gli esempi abbondano. Basti ricordare l'imposizione nel 2012 di un nuovo Trattato fiscale (il cosiddetto Fiscal Compact) al di fuori del Trattato di Lisbona (utilizzando il veto britannico ma così evitando il ricorso ad una cooperazione rafforzata che avrebbe coinvolto il Parlamento europeo oltre che la Commissione europea) oppure la recente decisione di dare vita ad una coalizione dei volenterosi (una decina di paesi) fuori dal Consiglio Europeo per risolvere il “suo” problema dei rifugiati siriani, una volta constatata la divergenza di veduta tra Merkel e il presidente di quest'ultimo (il polacco Tusk). Insomma, la Germania, per raggiungere i suoi obiettivi, usa le istituzioni di Bruxelles a seconda delle convenienze. Se la sua politica nei confronti della Grecia è contrastata dal presidente della Commissione Juncker, allora rafforza il ruolo del Consiglio europeo. Se la sua politica nei confronti dei rifugiati siriani è contrastata all'interno del Consiglio europeo, allora riscopre il ruolo della Commissione, coinvolgendo il suo presidente in bizzarre riunioni che si tengono all'esterno degli organismi ufficiali (in questo caso, nella rappresentanza permanente austriaca). Come se non bastasse, la Germania può contare su apparati amministrativi, all'interno delle principali istituzioni di Bruxelles, diretti da personale tedesco o comunque proveniente da paesi sensibili ai suoi interessi.

Ecco perché è plausibile criticare l'Ue che è emersa negli ultimi anni. Se non lo si facesse, si lascerebbe il campo alle forze anti-europee che l'Ue la vogliono disintegrare. Tuttavia tale critica è controproducente, se non viene accompagnata da un disegno di riforma dell'Ue. Senza quest'ultimo, verrebbe vista come un tentativo di creare un'alleanza anti-tedesca che renderebbe ancora più rigida la posizione della Germania, se non addirittura come un'ulteriore contributo alla degenerazione dell'Ue in un'associazione di stati. L'Italia dovrebbe invece collocare quella critica all'interno di una riforma delle istituzioni e delle politiche, rielaborando i valori originari su cui era nata l'Ue a Roma nel 1957. Quei valori parlavano dell'eguaglianza tra stati e tra cittadini come la basilare condizione per garantire la pace nel nostro continente. Come si è fatto recentemente con la conferenza sulla crisi libica, Roma dovrebbe diventare la capitale di una conferenza sulla crisi europea che rilanci il progetto di integrazione politica a sessant'anni dalla sua nascita. Un'unione democratica di stati e di cittadini non può funzionare sulla base di egemonie permanenti o di gerarchie istituzionalizzate. È anche nell'interesse storico della Germania contribuire a dare vita ad un'architettura istituzionale che ne riequilibri il potere.

sfabbrini@luiss.it

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