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I nodi che l’Europa non riesce a sciogliere

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l’anno nuovo tra paure e speranze

I nodi che l’Europa non riesce a sciogliere

«Per il 2016 non mi faccio nessuna illusione, assomiglierà come una goccia d’acqua al 2015, le crisi che ci sono resteranno e altre ne verranno» ha dichiarato il 18 dicembre, alla fine del vertice Ue di Bruxelles, il presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker.

L’ex premier lussemburghese non è un politico qualunque. Conosce l’Europa come le sue tasche: ha conosciuto da vicino e da protagonista quella rampante, stellare, dei tempi della squadra Mitterrand-Kohl-Delors e quella sempre più squinternata, liquida ed elusiva dell’ultimo decennio.

Le sue attese poco rassicuranti sull’anno che viene non riposano sull’euroscetticismo modaiolo. Al contrario. Sono il frutto di un euro-realismo che, appunto, non può chiudere gli occhi di fronte alla realtà di un’Europa sempre più sotto stress, assediata da crisi multiple, interne ed esterne, tutte di difficile soluzione perché si aggrovigliano tra loro come il nodo di Gordio e senza che in giro si veda un Alessandro.

Il 2015 è stato un anno terribile: è cominciato con l’attentato e i 12 morti a Parigi nella redazione di Charlie Hebdo e si è concluso il 13 novembre con i 130 morti degli attacchi a raffica tra lo stadio, il Bataclan e i bistrot della capitale francese. Il terrorismo dell’Isis è sbarcato in Europa con violenza inusitata per mano dei suoi figli disadattati, addestrati alla morte dal califfo nero.

I massicci bombardamenti che ne sono seguiti sullo stato del Levante in Siria e in Iraq e la grande coalizione internazionale per sconfiggerlo per ora non sembrano essere stati risolutivi. Tutt’altro. L’ambiguo ruolo della Russia di Putin, il suo accidentato dialogo con l’America di Obama, la pericolosa crisi nei rapporti tra Mosca e la Turchia, un Paese membro della Nato che non si capisce da che parte stia, l’incerto contributo di un’Europa divisa ed esitante con l’eccezione della Francia sono tutti fattori che promettono una lunga guerra dagli incerti sviluppi sul terreno.

Come incerto resta il futuro dell’Ucraina, gli accordi di Minsk, le sanzioni Ue alla Russia, in breve, il destino di un’altra grande crisi alle porte dell’Unione.

Dentro casa, dopo la solita ondata emotiva sono stati fatti pochi passi avanti per colmare le lacune macroscopiche di una politica europea anti-terrorismo che di fatto non c’è, chiusa nelle varie realtà nazionali che comunicano poco, gelose della propria sovranità, in concorrenza tra loro: facilitano così il gioco dei terroristi e degli attentati.

Il massiccio e disordinato arrivo dei rifugiati, oltre un milione in 12 mesi, il quintuplo dell’anno precedente, favorisce le infiltrazioni di terroristi. Il parto di un’organica politica europea finora si è rivelato impossibile. Muri e reticolati si sono moltiplicati dentro e fuori dall’area Schengen di libera circolazione senza passaporti dei cittadini: il rischio che questa storica conquista europea possa prima o poi saltare non è affatto remoto.

Invise ai Paesi dell’Est, imposte con la forza del voto a maggioranza, le quote per la spartizione obbligatoria in due anni di 160mila rifugiati sbarcati in Italia e Grecia non hanno risolto quasi nulla: poco più di qualche centinaio i profughi ricollocati. Le quote permanenti restano un tabù insormontabile. I centri di registrazione e identificazione, i cosiddetti hotpspot, continuano a mancare all’appello. Rinviata la creazione di un corpo europeo a protezione delle frontiere esterne, terrestri e marittime, dell’Unione. L’accordo con la Turchia per frenare all’origine gli arrivi stenta a materializzarsi: difficile reperire tra gli Stati Ue i 3 miliardi promessi per finanziare i campi di raccolta, come difficile resta il rilancio dei negoziati di adesione.

Sulla crisi dei migranti e sulla sua politica della porta aperta ai siriani Angela Merkel ha rischiato la poltrona: alla fine è riuscita a sedare la rivolta dentro il suo partito rimangiandosi in parte la parola, stringendo sugli arrivi. Ma, se la carta turca non dovesse funzionare, l’emergenza migratoria che non è destinata a finire presto potrebbe rimetterla sotto pressione.

Un’Europa debole e confusa, dove crescono i partiti populisti, nazionalisti e anti-sistema, dove in Francia brilla il Front National di Marine Le Pen, in Polonia i nazional-conservatori di Jaroslaw Kaczynski e in Spagna sembra spegnersi male il regno di Mariano Rajoy, non ha certo bisogno di un cancelliere disorientato e assorbito dai problemi interni. Tanto più che la crisi dell’euro non è finita, Grexit è stato scongiurato ma la questione greca resta, l’economia non ritrova una ripresa robusta e nemmeno un’inflazione normale nonostante le crescenti iniezioni di quantative easing da parte della Bce di Mario Draghi.

In definitiva, comunque lo si guardi, la previsione di Juncker appare centrata: il 2016 non annuncia quiete, piuttosto vecchie e nuove tempeste. Salvo imprevedibili smentite contrarie. Molto auspicabili, naturalmente.

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