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politica 2.0

Referendum e dimissioni, la sfida che serve a Renzi per smarcarsi dalle amministrative

O passa il referendum sulla riforma costituzionale o me ne vado. Nella sfida lanciata ieri da Renzi c’è innanzitutto l’intenzione di svuotare le amministrative del loro significato politico. E dunque poco importa chi vincerà a Roma o Milano o Napoli, la posta il premier la mette su quel test popolare che lui vuole trasformare in un voto su se stesso.

Ma perché sposta la scommessa in avanti? E perché ci mette sopra il massimo della puntata, le dimissioni? Perché le amministrative di giugno nelle grandi città presentano tanti rischi e scarsi spazi di manovra per il premier. In sostanza Renzi ha capito che quelle urne le può controllare fino a un certo punto. In primo luogo perché non si sa quale sarà l’esito delle primarie. Cioè se ai gazebo vinceranno i candidati più vicini a lui o no, se a Milano ci sarà Giuseppe Sala o no, se a Napoli ci sarà Antonio Bassolino e in quanti pezzi si spaccherà il Pd a livello locale. Insomma, le amministrative riguardano da vicino lo stato di salute del partito sui territori - che non è buono - e ormai è troppo tardi per occuparsene. Quello è il suo tallone d’Achille, il suo punto debole e allora meglio prenderne le distanze.

Inoltre ci sono situazioni, come Roma, su cui il fallimento è stato doppio, Comune e Pd e lui stesso ha sperimentato quanto la Capitale sia complicata da recuperare. Infine c’è la “spina” nel fianco delle alleanze a sinistra che si sono spezzate e questo potrebbe riprodurre, in alcune città, lo stesso esito che c’è stato in Liguria dove la spaccatura ha determinato la sconfitta del Pd. Dunque non una ma tante ragioni spingono il premier a spostare la sfida sulla sua leadership da giugno a ottobre, quando si voterà per il referendum costituzionale.

Ma è chiaro che non può scansare un risultato politico solo perché lui stesso dice che non è importante, come aveva cominciato a fare nelle settimane scorse. Per smarcarsi da una sfida serve trovarne un’altra, per “oscurare” una scena serve illuminarne un’altra e non a caso Renzi ha scelto il referendum costituzionale. È un test perfettamente inverso alle amministrative perché è un terreno su cui gioca da solo, in proprio, senza la variabile del partito o delle città. Perché le riforme sono la sua bandiera identitaria, lo slogan con cui è arrivato a Palazzo Chigi e che ora gli consente di trovare un altro slogan e altri avversari: quella battaglia tra politica e anti-politica di cui ha già cominciato a parlare ieri.

Inoltre, per allontanare da sé l’esito delle amministrative ha voluto caricare il referendum di valore politico mettendoci sopra il massimo della posta: le sue dimissioni. Almeno questo evoca la frase che ha detto ieri, o passa il referendum oppure ho fallito. Una promessa, tra l’altro, che è perfettamente coerente con il profilo che si è costruito, sempre pronto al rilancio, interprete di una politica che vive di scommesse o di azzardi, che non si accontenta di “poltrone”. Dunque, drammatizzare il test costituzionale e i suoi esiti lo riporta al linguaggio delle origini ma gli consente soprattutto di tenere alta l’attenzione su di sé, di non entrare nella routine di un premier con il cacciavite. Naturalmente c’è un ma. Perché la sfida del referendum si trascinerà tutte le altre che ci sono da qui a ottobre prossimo. C’è la partita con la Merkel e con l’Europa che è centrale nel 2016. C’è da misurare l’effetto sull’economia del taglio delle tasse, se e quanto ci sarà. C’è da gestire la vicenda del risparmio, il nodo dei rimborsi, la commissione d’inchiesta. Anche volendo scavalcare le amministrative a Renzi resterà la sfida dei problemi.

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