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Sarà l’anno decisivo per la manifattura

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Sarà l’anno decisivo per la manifattura

A terra o in piedi. La competizione globale è un match di boxe, reso più cattivo da sette anni di recessione violenta. Il 2016, per la nostra economia, sarà il round più duro. In palio, una ritrovata centralità o una definitiva marginalizzazione negli equilibri della manifattura internazionale.

Indossati i guanti, vedremo quale delle due anime del sistema industriale italiano prenderà il sopravvento. La minoranza che, in virtù del suo collegamento ben strutturato ed efficiente con le catene internazionali del valore, appare in grado di dare di nuovo tono e di assumere la leadership psicologica in mezzo al ring. Oppure la maggioranza che, estromessa da tempo dai circuiti internazionali e falciata alle gambe dalla caduta del mercato interno, assomiglia ormai ad un pugile suonato, prossimo al tappeto. Esiste un tema di fisionomia concreta di chi sale sul ring.

L’economista Sergio De Nardis ha calcolato in un quinto, dal 2008, la riduzione del potenziale produttivo italiano. Dunque, c’è un obiettivo problema di “massa industrial-muscolare”. Allo stesso tempo, in un citatissimo articolo pubblicato sul penultimo numero della «Rivista di Politica Economica» De Nardis ha mostrato la scissione fra la realtà di chi esporta (la minoranza) e la realtà di chi non lo fa (la maggioranza). Le imprese esportatrici sono il 21% del totale, ma ad esse è imputabile l’81,6% del valore aggiunto generato dal nostro sistema industriale. Fissato a 1 l’indicatore dei non esportatori, le imprese esportatrici hanno un valore aggiunto per addetto più che doppio (2,19), una retribuzione lorda per dipendente più elevata (1,56), investimenti per addetto più che doppi (2,12) e, passando ad una scala percentuale, un margine operativo lordo più alto di 23 punti. Dunque, questa tendenza al bipolarismo pulviscolare, che caratterizza l’Italia dalla fine nei primi anni Novanta del paradigma della grande impresa novecentesca e che è stata accentuata dal processo di disarticolazione-riconfigurazione attuato dalla globalizzazione, appare una caratteristica con tratti degenerativi: o, nel 2016, si ricompone questa divaricazione o il nostro capitalismo rischia di essere trascinato verso il basso dalla maggioranza silenziosa e peritura.

Adoperando l’astrazione statistica classica, l’ultimo «Rapporto Analisi dei Settori Industriali» promosso da Prometeia e da Intesa Sanpaolo fissa in un +1,9% l’incremento in valori costanti del fatturato dell’industria manifatturiera nel 2016 e in un +3% quello delle esportazioni. Per il prossimo anno, il margine operativo lordo dovrebbe essere pari all’8,4%, contro l’8,1% del 2015; il Roi, cioè la redditività della gestione caratteristica, al 5,9% (mezzo punto in più rispetto al 2015); il Roe, ossia il ritorno sul capitale, al 4,9%, a fronte del 4,2% del 2015.

Tornando all’immagine del capitalismo italiano come pugile destinato a un 2016 da combattimento, un altro elemento da non sottovalutare è il virus patogeno della deflazione. L’indice di rischio deflazione dell’economia italiana del Centro Europa Ricerche è un termometro che indica l’accumularsi di un calore pronto a salire sopra i 40 gradi di febbre: nel 2009, primo anno dell’era recessiva, l’indice ponderato - costruito dal Cer tenendo conto del bancocentrismo italiano – in una scala da zero a uno vale 0,2; dal 2013, oscilla fra 0,7 e 0,8. Quest’anno, nel primo trimestre si attesta appunto a 0,8, per poi stabilizzarsi nei successivi tre trimestri a 0,7. In ogni caso, un indice di rischio che gli economisti guidati dal presidente del Cer Vladimiro Giacché e dal direttore Stefano Fantacone giudicano “alto”. Il pericolo è sottopelle, ma è grave. È invisibile, ma è potente. La deflazione, che nel caso italiano ha fra le sue cause il peso determinante nella dinamica del credito (per il 60%, i prezzi valgono soltanto il 10%), rischia di innescare un meccanismo di sonnolenza e di afasia nel sistema produttivo: la contrazione generalizzata dei prezzi riduce strutturalmente la possibilità di ottenere margini crescenti, dunque inibisce gli investimenti, ossifica i progetti, spalma una patina di inattività anoressizzante sulle strategie. Tutto questo, finora, non è successo. O, almeno, il virus rilevato dal Cer non ha ancora dispiegato tutta la sua capacità di bruciare energie strategiche e di “mangiare” dall’interno l’organismo tecno-industriale del puglie Italia. Dunque, anche in virtù della genesi “bancaria” e non “da consumi” del rischio deflattivo, con tutto quello che sta capitando nello scenario del credito comunitario e nazionale – la componente francofortese anti-inflativa da trauma di Repubblica di Weimar della Bce, il conflitto fra Roma e Bruxelles sui provvedimenti di ristrutturazione dei nostri piccoli istituti e il tendenziale riallineamento del paesaggio italiano agli standard bancari anglosassoni – è bene che, nel 2016, non si sottovaluti il pericolo deflattivo per il sistema industriale italiano.

C’è, invece, una particolare energia che, da almeno quarant’anni, contribuisce a tenere ben dritte sul tappeto del ring le gambe del pugile Italia: la capacità di produrre all’ombra dei campanili (anche se non ci sono più) cose belle (che ci sono ancora) che piacciono (ancora) al mondo. Nel numero di novembre di «Scenari Industriali» dedicato a “Produzione e commercio: come cambia la globalizzazione. La manifattura italiana riparte da buone basi”, il Centro Studi Confindustria diretto da Luca Paolazzi riporta la statistica del Trade Performance Index, elaborato da Wto e Unctad sui dati di 184 Paesi utilizzando un mix di indicatori quantitativi e qualitativi.

Oggi l’Italia è il secondo sistema industriale per performance dell’export nei mezzi di trasporto (ha preso il posto che nel 2006 era della Francia, la leadership è sempre tedesca, al terzo posto ieri come oggi c’è la Corea del Sud). Il nostro Paese è secondo anche nella meccanica non elettronica, nei manufatti di base, nella meccanica elettrica e negli elettrodomestici. Inoltre, siamo primi al mondo nel tessile, nell’abbigliamento, nel cuoio, nella pelletteria e nelle calzature. Risultati basati anche sull’innovazione di prodotto e processo, non rilevata dai bilanci e dalle statistiche mainstream. Nell’attesa del gong, un altro elemento da considerare è la sorprendente “resilienza”, cioè la capacità adattiva e di sopportazione degli urti, del nostro capitalismo manifatturiero. Di grande interesse appare il paper predisposto da Roberto Monducci, direttore del dipartimento per i conti nazionali e le statistiche economiche dell’Istat, in occasione dell’ultimo Strategic Forum organizzato di Oecd e Fondazione Einaudi. Monducci ha analizzato, grazie ad un nuovo data base dell’Istat formato da 4,4 milioni di imprese, la reazione più profonda del sistema industriale italiano ai colpi della recessione più cruenta, quando fra il 2010 e il 2013 si è stati tutti quanti prossimi al baratro, come un pugile che rischia di essere sbalzato fuori dal ring. Ne emerge, appunto, un quadro di sostanziale “resilienza”. Il 43% delle aziende – 1,3 milioni - ha ridotto valore aggiunto e occupati, ma è sopravvissuto. Il 15% ha aumentato sia il valore aggiunto sia gli occupati. Allo stesso tempo, Monducci ha ricostruito un quadro delle dinamiche manifatturiere che appare segnato dal carattere della “persistenza”: fra 2012 e 2014, per esempio, una maggioranza di imprese “conservatrici” ha visto il fatturato estero diminuire di un valore percentuale mediano dell’1% e del fatturato interno dell’8%; allo stesso tempo, una minoranza di imprese “altamente internazionalizzate” ha visto diminuire del 2% il valore mediano dei ricavi interni ed aumentare del 4% quello dell’export; una altrettanto importante élite di aziende “innovative” è cresciuta nei ricavi di un punto in Italia e all’estero di cinque punti percentuali mediani. Tutte imprese che, in questi anni, hanno preso botte da orbi ma che, grazie alla sedimentazione di fattori strutturali di competitività, non sono finite KO. Anche se, pure in questo caso caratterizzato dalla continuità aziendale, si delinea una scissione bipolare fra i molti e i pochi. Il 2016 sarà il round decisivo per capire chi resterà in piedi.

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