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Cresce il rischio della tempesta perfetta

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l’analisi

Cresce il rischio della tempesta perfetta

Siamo appena al terzo giorno di scambi dell’anno, ma qualcuno inizia già a parlare di «tempesta perfetta». E se è ben nota la tendenza a ragionare per iperboli da parte degli operatori sui mercati, occorre anche riconoscere a questo brevissimo scorcio di 2016 la capacità di aggiungere nuovi e differenti elementi di tensione a quelli che già avevano caratterizzato la seconda metà dell’anno precedente.

È francamente difficile pensare che sia stato l’annuncio del test sulla bomba a idrogeno da parte della Corea del Nord a scatenare le svendite che si sono viste ieri, vuoi perché il peso economico di Pyongyang nel contesto globale è risibile, vuoi perché gli operatori faticano davvero a mettere a fuoco le possibili conseguenze delle deliranti rivendicazioni del regime di Kim Jong-un. E altrettanta difficoltà la si trova nel valutare le rinnovate tensioni che circondano il Golfo, se non nella misura in cui queste stanno a sorpresa contribuendo a far scendere ulteriormente il prezzo del petrolio, fattore di per sé di incerta valutazione che il mercato ha però ormai bollato come negativo.

Resta invece ben presente sui radar degli investitori ciò che sta accadendo in Cina, e non potrebbe essere altrimenti visto che quella di Pechino è la seconda economia mondiale. Gran parte dei rovesci patiti ieri dalle Borse d’Occidente è infatti soprattutto il riflesso della nuova svalutazione dello yuan operata dalla Banca del Popolo: un’operazione che del resto aveva già dato il via alle svendite della scorsa estate, in quanto genera da un lato negli operatori la convinzione che la frenata dell’economia cinese sia in realtà più pronunciata di quanto raccontino i già deludenti indicatori statistici e dall’altro mette in difficoltà chi punta sull’export verso il Dragone.

Sul tema occorre però fare chiarezza, perché pur in grado di generare episodi di volatilità come quello presente e come la crisi di agosto, agli occhi degli investitori le vicende della Cina non sembrano ancora in grado di provocare conseguenze irreparabili nel medio termine. Gli analisti di Ubs, che già non sono certo fra i più positivi nei confronti del Dragone perché prevedono un incremento reale del Pil del 6,2% nel 2016 e del 5,8% nell’anno successivo, sostengono che neanche il peggior scenario possibile (ma improbabile) di una crescita al 4% si tradurrebbe in una recessione globale. Questo perché le economie avanzate sono in generale più chiuse e quindi meno vulnerabili a shock esterni e perché il ruolo del Renmimbi a livello internazionale è ancora limitato ed è difficile ipotizzare che la crisi del sistema finanziario cinese possa avere un contagio particolarmente esteso.

Ciò che più allarma in questo momento delle vicende di Pechino è quindi la difficoltà nel prevedere quale piega assumerà la crisi attuale e soprattutto quali saranno le risposte delle autorità locali. Da tempo ormai anche dalle colonne di questo giornale si è richiamata l’esigenza di un’azione energica, di stampo «occidentale» per così dire, per tamponare l’emorragia e accompagnare l’economia cinese nella sua complessa fase di transizione e trasformazione. Ma la mossa di ieri sullo yuan, dopo gli interventi a pioggia dei giorni precedenti, ci ricorda ancora una volta come la Pboc stia tuttora seguendo una via propria al «Qe» e offra ben poche delle certezze che il mercato esige.

Ancora Ubs stima che in caso di maxi-frenata dell’economia di Pechino nel 2016 il Pil reale americano rallenterebbe di mezzo punto percentuale, quello dell’Eurozona dello 0,8% (dall’1,8% all’1%). Non solo: immediate sarebbero le conseguenze anche sull’inflazione, che risulterebbe in media più bassa dello 0,8% negli Stati Uniti e dello 0,7% nell’area euro, e quindi anche le reazioni delle due Banche centrali sulle quali gli occhi di tutti continuano a essere puntati.

La Federal Reserve potrebbe allora limitarsi quest’anno ad appena due dei quattro rialzi che ancora ieri il vicepresidente Stanley Fisher riteneva «necessari» e anche la Bce di Mario Draghi faticherebbe a restare inerme e si vedrebbe costretta a riprendere quel filo interrotto bruscamente con la riunione di inizio dicembre. L’onere di interrompere il corto circuito tornerebbe quindi in questo caso agli attori di sempre, che per il momento figurano in secondo piano rispetto alle vicende da prima pagina di questi giorni. Dovessero perdere la fiducia che in loro continuano a riporre i mercati, la «tempesta perfetta» sarebbe davvero inevitabile.

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