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Europa in deficit di democrazia

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Europa in deficit di democrazia

  • –Sergio Fabbrini

L’Eurozona rischia di implodere per deficit di democrazia. Un esempio. Pochi giorni fa, il presidente dell’Eurogruppo, l’olandese Jeroen Dijsselbloem, ha avvertito l’Italia «a non esagerare con l’uso della flessibilità» nei conti pubblici. Certamente, il suo ruolo istituzionale lo legittima a tali esternazioni. Continua pagina 19

Sergio Fabbrini

Ma si può dire la stessa cosa sul piano della legittimità democratica? Qui, invece, la risposta è negativa. Dijsselbloem è il ministro dell’economia dei Paesi Bassi, nominato presidente dell’Eurogruppo dagli altri ministri economici dell’Eurozona senza essere mai passato attraverso la conferma del Parlamento europeo. In un sistema di alta interdipendenza economica, come è la nostra unione monetaria, nessun paese può prendere decisioni di bilancio disinteressandosi delle loro conseguenze sugli altri paesi. Va da sé che l’interdipendenza economico-monetaria implica una perdita, sia pure relativa, della sovranità nazionale sul bilancio. Ma gli elettori possono accettare di perdere la loro sovranità sulle scelte nazionali solamente se hanno la possibilità di esercitare, insieme agli elettori degli altri paesi, la loro sovranità sulle scelte europee. Ed è qui che risiede il deficit democratico dell’Eurozona. Dijsselbloem è stato eletto dal parlamento dei Paesi Bassi. La sua legittimità a parlare a nome dell’Eurozona proviene da una pura delega da parte dei governi nazionali, non già dal consenso degli elettori dei paesi dell’Eurozona. Eppure, di tale discrasia democratica, Bruxelles non si preoccupa. Tant’è che la Commissione ha presentato, il 21 ottobre scorso, un Rapporto in cui propone che il presidente dell’Eurogruppo diventi il ministro dell’economia, con il potere rafforzato di controllo sulle politiche economiche nazionali oltre che con quello di rappresentare l’intera Eurozona all’interno delle organizzazioni finanziarie internazionali (a cominciare dal Fmi). L’esempio di Dijsselbloem mostra che si è svuotata la democrazia nazionale senza rafforzare quella sovranazionale. Sembra che Bruxelles sia prigioniera di una hubris economicistica secondo la quale la democrazia è una sovrastruttura ridondante se non addirittura fastidiosa. Naturalmente, tutto ciò che favorisce il dialogo economico tra i vari paesi è positivo. Condividendo la stessa moneta è bene che quei paesi condividano anche linee o obiettivi strategici di politica economica. Tuttavia, tale condivisione non può cancellare le differenze strutturali tra di essi. L’Europa è unità nella diversità, non già uniformità senza diversità. È probabile che ciò sia il derivato di una teoria economica dominante che non riconosce alla politica il ruolo di governo delle differenze nazionali, ma certo è che senza autorità democratiche che la governino l’Eurozona è destinata a implodere nell’anti-euopeismo.

Ciò vale anche per la Ue. Nei paesi dell’est Europa (come in Polonia e in Ungheria) si sono formate maggioranze politiche così anti-europee da definirsi “democrazie illiberali”. Nel paesi del nord Europa (come la Gran Bretagna o la Danimarca) la pressione per l’uscita dalla Ue diventa ogni giorno più forte. Nei paesi del sud Europa (come la Spagna o il Portogallo), l’anti-europeismo è risultato così influente da ostacolare la formazione di governi nazionali stabili. Occorre cambiare prospettiva e agenda. Tre punti mi sembrano essenziali. Primo. La Ue in quanto progetto unitario non è più proponibile. Al suo interno ci sono prospettive radicalmente diverse sulle finalità del progetto di integrazione. Occorre riconoscere che vi sono paesi che vogliono partecipare ad un mercato comune, ma non ad una moneta comune. Per questo motivo il mercato comune dei 28 e l’Eurozona dei 19 dovrebbero darsi forme distinte di organizzazione istituzionale. Secondo. Se al mercato comune basta un sistema regolativo per funzionare, la moneta comune abbisogna invece di un sistema democratico per essere gestita. L’Eurozona deve essere costituzionalizzata diventando la base di un’unione politica in cui vengono condivise basilari politiche comuni, lasciando le altre politiche al controllo delle democrazie nazionali. Terzo. Una volta distinti istituzionalmente il mercato comune e l’unione politica, occorre avviare un negoziato per risolvere i problemi relativi alla presenza della seconda all’interno del primo. La possibilità di un’uscita unilaterale dall’Ue, come potrebbe avvenire con il referendum britannico, è un esempio della miopia collettiva delle leadership europee. Il mercato comune è una conquista irrinunciabile dell’Europa. Deve essere preservato (e magari anche allargato) consentendo allo stesso tempo la formazione di un’unione politica più ristretta, ma anche più coesa, basata su una democrazia composita, sovranazionale e nazionale insieme. In quest’unione sarà allora legittimo che, con riguardo alle politiche comuni, governanti europei possano prendere decisioni che vincolino la sovranità nazionale perché scelti, contrariamente a Dijsselbloem, dagli elettori dell’unione e non solo dai loro governi. Secondo quanto riferito dal nostro ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, si dovrebbe tenere a Roma, a metà gennaio, un incontro dei governi dei sei paesi fondatori della Ue. C’è da sperare che tale incontro possa essere l’occasione per dimostrare che l’Italia è interessata non solamente ad una maggiore flessibilità delle regole bilancio, ma anche ad un’unione che parli al cuore dei cittadin i perché anche da essi legittimata.

sfabbrini@luiss.it

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