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L'Italia e la polveriera libica

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SFIDE

L'Italia e la polveriera libica

Terrorismo, migranti e petrolio: ci sono tutti gli elementi per capire perché nel 2016 il dossier libico rivesta un'importanza cruciale per la politica estera italiana e la stabilizzazione della Libia rappresenti un obiettivo di interesse nazionale per l'Italia.

Il governo ne è consapevole, al punto da aver lavorato sottotraccia negli ultimi mesi del 2015 per ottenere una sorta di investitura per la leadership tricolore alla preannunciata iniziativa internazionale a sostegno della stabilizzazione del Paese nordafricano, quantomai urgente considerando come il Califfato stia conoscendo ulteriori sanguinosi successi. La conferenza di Roma del 13 dicembre scorso, in fondo, serviva anche a consacrare la “legittimità” delle pretese italiane di coordinare e guidare qualunque futuro intervento: un successo oggettivo, se solo si considera che in settembre l'Italia era stata esclusa dal vertice trilaterale (Francia, Germania, Regno Unito) convocato a Parigi dal presidente Hollande. Un episodio, quello, che aveva segnato uno dei massimi momenti di tensione (poi solo parzialmente rientrata) tra il premier Renzi e la sua ex ministra degli Esteri Federica Mogherini, nel frattempo divenuta Alta rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell'Unione. Portato a casa il risultato della conferenza, e ottenuta nella settimana successiva sia il tanto sospirato accordo tra le due principali fazioni che (non) governano il Paese sia una Risoluzione del Consiglio di Sicurezza che impegnasse gli Stati membri dell'Onu a fornire assistenza al nuovo governo di unità nazionale, è iniziata la parte più difficile del lavoro. Che tipo di contenuti dovrà avere la missione e in che modo l'Italia pensa di esercitare e difendere la propria leadership è infatti una cosa ancora tutta da definire ed è proprio su questo che il ministro degli Esteri Gentiloni e quello della Difesa Pinotti lavorano e lavoreranno nelle prossime settimane, di sicuro “discretamente” coadiuvati dall'amministratore delegato dell'Eni: la compagnia italiana ha in Libia consistenti interessi e tra i compiti che ricadrebbero sulle truppe del contingente italiano che gli Stati Maggiori stanno approntando ci sarebbe anche quello della protezione di pozzi di estrazione e piattaforme off-shore del “cane a sei zampe”, sullo schema di quanto deciso per la diga di Mosul, in Iraq.

Ricevendo il premier incaricato Fayez Al-Serraj a palazzo Chigi il 28 dicembre scorso, Matteo Renzi aveva ribadito il pieno sostegno italiano al tentativo di dar luogo a un esecutivo di unità nazionale, la totale fiducia nella capacità del nuovo governo ad affrontare le sfide che lo attendono e la completa disponibilità italiana a rispondere alle richieste di aiuto e assistenza che dovessero pervenire dalle autorità libiche. Me è del tutto evidente che le incognite sul cammino sono enormi e molteplici, a iniziare dalla tenuta del patto tra le autorità di Tobruk e quelle di Tripoli (peraltro non ancora ratificato), per tacere delle prevedibili reazioni sottili delle diverse bande che si sentono o sono state escluse dalla piattaforma patrocinata dalla comunità internazionale e che non si limiteranno a farsi da parte pacificamente: l'Isis certamente, così come le formazioni qaediste, ma non solo loro evidentemente. Proprio questo tema potrebbe rivelarsi il primo e principale intoppo su cui la leadership italiana potrebbe incagliarsi. Nonostante le intermittenti aperture dei ministri degli Esteri e della Difesa circa la possibilità di un invio di unità aeronavali e di unità di terra non solo in veste di addestratori, la posizione fino ad ora continuamente ribadita da Matteo Renzi è sempre stata quella di una sostanziale indisponibilità italiana a partecipare attivamente ad azioni di combattimento nei confronti delle formazioni dell'Isis, di Al Qaeda o di altri anche in Libia. Né più né meno di quanto del resto accade in Iraq, Afghanistan e Libano. Non può sfuggire invece che, comunque sarà configurato, l'intervento in Libia dovrà necessariamente contemplare una componente “cinetica”, considerate le condizioni di estrema insicurezza del Paese e la fragilità delle nasciture nuove istituzioni libiche. Un governo come l'attuale, estremamente refrattario a impiegare nelle funzioni di combattimento (che gli sarebbero proprie) i suoi soldati, riuscirà a mantenere la leadership dell'operazione se questa dovesse richiedere un impiego effettivo della forza appena superiore a quello della mera dissuasione? Anni di guerra civile, l'azione di attori esterni fin qui in conflitto tra loro (Egitto ed Emirati, Qatar e Turchia), la presenza crescente di formazioni jiahdiste e i decenni di dittatura personale di Gheddafi rendono d'altronde pressoché inevitabile che la lunga e pesante azione di State-building avvenga in un ambiente che resterà altamente insicuro per molti mesi, se non per anni. In termini di durata e consistenza dell'impegno, lo sforzo cui la comunità internazionale è chiamata rischia di assomigliare a quello compiuto in Bosnia o in Afghanistan piuttosto che a quello attuato nel Libano meridionale. Dopo aver così intensamente lavorato per guidare l'azione internazionale in Libia, anche a costo di apparire poco generoso e solidale nell'azione contro Isis in Siria ed Iraq, il governo non può correre il rischio che la timidezza nelle regole di ingaggio e nei caveat o la limitatezza degli obiettivi assegnati ai militari italiani (tutela delle infrastrutture dell'Eni e addestramento delle forze di sicurezza libiche) vanifichi il risultato. In questo, o la politica renziana verso l'impiego dei militari italiani “cambierà verso”, oppure la leadership dell'intera operazione potrebbe passare ad altri (gli inglesi, hanno già destinato 1.000 uomini all'operazione “Libia 2”). Questo però potrebbe avere conseguenze molto pesanti per gli interessi dell'Eni, che il premier ritiene “parte dell'interesse nazionale”, per riprendere le parole pronunciate da Matteo Renzi a proposito delle attività egiziane della compagnia di Metanopoli. Paradossalmente, se la situazione libica dovesse migliorare, potrebbero tornare a farsi molto consistenti anche i flussi dei migranti, che negli ultimi mesi del 2015 si erano sensibilmente ridotti.

Una “moderata instabilità” renderebbe infatti di nuovo praticabili il “Libyan trail” tra Africa subsahariana e coste del Mediterraneo, che alimentava le rotte tra Libia e Italia. È vero che le navi della coalizione si aggiungerebbero a quelle del dispositivo Frontex nell'attività di pattugliamento, ma è impensabile che esse possano effettuare “respingimenti in alto mare”, come ai tempi dell'ultimo governo Berlusconi, prassi peraltro proibita anche dalle normative comunitarie in vigore.

L'unica speranza di limitare il flusso dei migranti passerebbe quindi necessariamente per un controllo internazionale dei porti libici e per un accordo complessivo con la Libia. Non è un caso che, proprio in occasione della sua visita romana, il premier designato Al-Serraj, abbia parlato di voler “riattivare il Trattato di amicizia e cooperazione” tra Italia e Libia, firmato da Berlusconi e Gheddafi il 20 agosto 2008, che prevedeva tra l'altro l'impegno libico a combattere l'immigrazione clandestina.

Com'è facilmente intuibile, un simile risultato non può però essere considerato immediatamente a portata di mano, mentre potrebbe essere raggiunto in un'eventuale “fase 2” dell'operazione, quando la complessa azione di State-building della nuova Libia fosse già a buon punto: molto ottimisticamente non prima del 2017.

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