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David Bowie, il dandy che reinventò il rock

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il ritratto

David Bowie, il dandy che reinventò il rock

La faccia con il trucco più iconico della fantastica carriera di musicista-trasformista di Bowie nel murales della sua natia Brixton
La faccia con il trucco più iconico della fantastica carriera di musicista-trasformista di Bowie nel murales della sua natia Brixton

Per un dandy la vita va intesa come un’opera d’arte. L’ideologo del glam rock, che del dandismo è stato la declinazione musicale postmoderna, non solo in vita si è attenuto scrupolosamente a questo assunto, ma si è addirittura spinto sino a trasformare la propria morte in un concept estremo: David Bowie – rockstar di prima grandezza, attore cinematografico e innumerevoli altre cose che hanno a che fare con l’arte – è scomparso domenica 10 gennaio, «circondato dalla sua famiglia dopo 18 mesi di coraggiosa battaglia contro il cancro», recitava ieri una nota sul suo profilo Facebook.

Due giorni dopo il suo 69esimo compleanno che andava a coincidere con la pubblicazione di «Blackstar», proprio 28esimo album nonché testamento musicale, un’indefinibile e straordinaria miscela di electro pop, free jazz, art rock e rumorismo minimalista che rappresenta di sicuro il miglior lavoro del Duca Bianco dagli anni Ottanta a questa parte. Una “Stella Nera” per chiudere la propria parabola umana con la stessa originalità che ne aveva contraddistinto quella artistica. Con lui se ne va un pezzo fondamentale dell’immaginario British: non è un caso se a celebrare l’argomento intervengano il premier David Cameron («Era il maestro del reinventarsi»), il suo illustre predecessore Tony Blair («Artista geniale») e persino l’arcivescovo di Canterbury. Alla faccia del titolo di baronetto rifiutato con indifferenza qualche anno fa dal musicista, al contrario di tanti illustri colleghi. Che oggi – da Paul McCartney ai Rolling Stones – lo salutano con affetto, come fa la gente comune che in queste ore depone fiori davanti alla sua abitazione di New York o si reca in pellegrinaggio al murales di Brixton che lo ritrae con il make up di Aladdin Sane.

È proprio in quel sobborgo di Londra, negli anni Quaranta non ancora colonizzato dagli immigrati caraibici, che comincia tutto. David Robert Jones nasce da una cassiera di cinema e un reduce della Seconda guerra mondiale, si innamora presto del rock and roll tanto che, ancora bambino, rivela al suo insegnante che un giorno diventerà l’Elvis britannico, poi prende lezioni di sax. Là fuori esplode la Swinging London, lui debutta a vent’anni con l’album omonimo in pieno territorio mod, ma si fa notare soltanto nell’estate del 1969, quella dell’allunaggio, grazie a «Space Oddity», un pezzo su un astronauta che si perde in orbita. Tema ricorrente, quello dello spazio, tanto che nel biennio 71-72 infila il singolo «Life on Mars?» e s’inventa il concept di Ziggy Stardust, alieno precipitato sulla terra mentre l’umanità viaggia verso l’apocalisse. È la rivoluzione del glam e Bowie la incarna come interprete, produttore (in larga parte suo il successo di «Transformer» di Lou Reed e «Lust for Life» di Iggy Pop) e viveur (tra i suoi innumerevoli flirt, quelli con Amanda Lear e Mick Jagger). Il punto più alto della sua produzione è probabilmente la trilogia berlinese di «Low», «Heroes» e «Lodger», quando scopre l’elettronica, ma il Nostro non rinuncia a fare quattro salti in disco («Let’s dance») e a influenzare gran parte di ciò che ascolteremo negli anni Ottanta («Scary Monster»).

È stato un instancabile sperimentatore, non solo sul versante artistico: nel 1997 lanciò i Bowie Bonds, obbligazioni decennali legate ai diritti del suo songbook con un rendimento annuo del 7,9% che andarono esauriti nel giorno di lancio, consentendogli di incassare subito 55 milioni di dollari. L’anno scorso il «Sunday Times» ne ha stimato le fortune in 135 milioni di sterline. Per fare il dandy fino in fondo, ti serve un patrimonio di tutto rispetto.

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