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L’inquieta spiritualità dell’«alieno» David Bowie

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L’inquieta spiritualità dell’«alieno» David Bowie

Èquesto, un ricordo molto specifico di David Bowie che nasce da un mio ormai antico ascolto orientato a scoprire la sua segreta e implicita spiritualità. Un’inquietudine di fondo lo ha sempre accompagnato. Eppure in pochi l’avevano colta, ad esempio, all’epoca di «Station to Station». In quell’occasione lo stesso artista, che cinque anni prima aveva affidato la missione della salvezza agli alieni, si dedicava alla contemplazione delle stazioni della Croce nell’album che rifletteva i suoi anni più neri.

Pregava, nel buio delle dipendenze e delle sue domande laceranti: Lord, I kneel and offer you my word on a wing And I'm trying hard to fit among your scheme of thing («Signore, mi inginocchio e ti offro la mia parola su un’ala / e cerco disperatamente di trovare un mio spazio nel tuo ordine delle cose»).

Ma la ricerca non era finita, e non aveva smesso di tormentarlo, alimentando la sua arte. Da quei giorni – lo raccontava lui stesso – per anni ha indossato un piccolo crocifisso d’argento. La sua era una domanda lanciata verso l’alto e il mistero, certo, più che una risposta ottenuta. Così, Bowie cercava di capire il senso della preghiera in «Loving the alien» (1984), quando si chiedeva se le invocazioni a Dio celassero al loro interno la verità, se la religione non fosse credere – ancora una volta – soltanto in un alieno: And your prayers they break the sky in two / You pray till the break of dawn («E le tue preghiere tagliano il cielo in due / Tu preghi fino al sorgere dell’alba»). Impossibile contare le citazioni, i riferimenti di David Bowie alla spiritualità, tormentata e angosciata, ma mai esclusa dalla sua vita.

«Sono un giovane uomo in contrasto con la Bibbia. Ma non fingo che la fede non serva a niente, quando siamo in ginocchio a pregare alla fermata dell’autobus» scriveva in «Bus stop». L’arrivo di Gesù sulla terra lo lasciava con un misto di speranza e di incredulità. Eppure non ha mai abbandonato questa parte della sua anima, non ha mai smesso di chiedere un segno a Dio: «Apri il tuo cuore a me / Mostrami tutto ciò che sei / E io sarò il tuo schiavo ... / Dammi la pace interiore almeno / Mostrami tutto ciò che sei / Apri il tuo cuore a me» («I would be your slave», 2002). Ci scherzava, talvolta, come quando nel 2003 dichiarò: «Non sono ateo e questo mi preoccupa, ma datemi un paio di mesi!». Confessava, con il sorriso sulle labbra, che avanzando negli anni i suoi interrogativi erano diminuiti di numero ma erano sempre più profondi e laceranti.

Viva era la sua tensione morale che gli aveva fatto dire: «C’è una crescita di conoscenza che non è vera evoluzione. Dal punto di vista etico, l’umanità non progredisce. Come animali non siamo cambiati: uccidiamo e cerchiamo di sopravvivere». Questa stessa tensione morale probabilmente si ritrova in «Blackstar», l’ultimo suo lavoro, uscito due giorni prima della sua morte, che ovviamente non conosco. Sono però certo che questo originale protagonista della musica contemporanea parlerà a suo modo ancora una volta della spiritualità, stando sempre sul confine labile tra sacro e profano, dove la sua voce in passato riusciva – sia pure “laicamente” – a far vibrare l’anima anche di coloro che non sanno inquietare le loro coscienza.

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