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Il Presidente cerca un posto nella storia

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L’analisi

Il Presidente cerca un posto nella storia

Barack Obama ha dunque pronunciato il suo ultimo discorso alla Nazione e al Parlamento riunito in seduta plenaria. Un discorso distaccato che ha guardato al futuro, ai cambiamenti che l'America saprà affrontare e che ha riaffermato la grandezza degli Stati Uniti e la forza dell'economia per rassicurare quanti – e sono molti – sentono invece di vivere in un momento di incertezza e difficoltà. Il contesto del discorso è stato soprattutto elettorale: Obama ha attaccato i bigotti e i bulli riferendosi (indirettamente) a Trump e Ted Cruz, che non rappresentano secondo lui lo spirito vero di apertura di inclusione dell'America. Parlando di terrorismo Obama ha confermato che secondo lui non è una vera minaccia per l'America.

Tre notizie tuttavia hanno disturbato dall'esterno il discorso di Obama: Hillary Clinton da ieri è in difficoltà contro Bernie Sanders, un candidato della sinistra democratica, pessimista come i repubblicani di destra sull'America di Obama; gli iraniani hanno catturato ieri notte dieci marinai e due battelli americani, li rilasceranno. Ma il tempismo dell'episodio è stato sfortunato e quando, parlando di Iran, Obama ha solo citato l'accordo per il nuclere iraniano, in Aula si è percepito un certo imbarazzo. Terzo elemento, la risposta dell'opposizione, affidata a Nikki Haley una donna, il governatore della Carolina del Sud: moderata, anche lei contro Trump, intelligente e attraente, da ieri è anche spuntato un candidato ideale per la vicepresidenza.

Detto questo abbiamo visto un Obama intelligente ed eloquente come sempre ma forse troppo lontano dai sentimenti e dalla pancia del paese per potersi proporre come broker politico alle prossime elezioni. E qui, anche in questo discorso, emerge un tratto caratteriale che ha segnato la presidenza di questo primo afroamericano alla Casa Bianca. Emotivo nel privato, intellettuale in pubblico, Barack Obama potrebbe essere un “WASP” (Whiate AngloSaxon Protestan) per l'ossessione con cui privilegia l”understament” alla “sensazione”. Peccato che nell'era del tempo reale, dei social media e di un partito repubblicano dominato da due candidati scantentati (e detestabili) come Donald Trump e Ted Cruz la reazione “fredda”, forse apprezzabile nei circoli sociali, non funzioni nella politica.

Questo in parte è successo di nuovo ieri notte nel suo ultimo discorso sullo stato dell'Unione. Se il Presidente riesce a trasmettere passione quando parla a braccio dei bambini uccisi a Sandy Hook da un folle con armi che non doveva avere, privilegia invece il distacco quando deve spiegare l'impatto del terrorismo. Obama è convinto – forse perché lo hanno convinto i suoi consiglieri più fidati – che la guerra contro i terroristi sia già stata vinta. Che la paura per l'attacco possibile di un folle deve essere messa nel conto. Che la sua strategia stia già funzionando. Dunque, perché agitarsi? “State tranquilli” dice di fatto il Presidente, comprendo le vostre ansie, ma non hanno ragione di esistere. Vallo a dire a chi ha la casa avvolta dalle fiamme in attesa dei pompieri.

Il problema è che gli americani, giusto o sbagliato che sia, non sono tranquilli per niente. Non sopportano l'idea dell'aggressione. Non tollerano che il “cattivo” possa agire impunito senza che si provi a fare il possibile e l'impossibile per contrastarlo. Ma Obama il freddo, sceglie coscientemente di ignorare questo sentimento per privilegiare invece l'aspetto razionale. Non si parla di terrorismo, di estremisti islamici perché si tratta di una minoranza, perché non si possono offendere centinaia di milioni di musulmani che la pensano diversamente, perché è inutile scatenare una guerra o alzare il tono: si cadrebbe nella trappola preparata ad arte dell'Isis che altro non aspetta se non che qualcuno risponda alla provocazione.

Tutto questo potrebbe essere legittimo e funzionare se non fossimo nel mezzo di un'arena politica e di un anno elettorale difficile. Proprio l'altra sera a una cena con un gruppo di scrittori e politologi tutti orientati a sinistra, con una certa influenza sulla scena nazionale del paese, la critica comune al Presidente era quella di aver legittimato con il suo distacco l'estremismo di Trump. Il suo discorso subito dopo l'attacco a San Bernardino, ad esempio, è stato un errore politico - era il consenso de commensali - perché sul suo istinto a favore del distacco e della razionalità il Presidente doveva far prevalere il suo dovere di rispondere prima di tutti all'appello degli americani, che, spaventati, cercano nella Presidenza l'ultima protezione.

Non che queste due alternative davanti a lui non fossero chiare. La sua scelta di ridimensionare la paura dell'estremismo islamico dicendo che non vi era ragione di averla era sicuramente coerente con il suo istinto. Ma con questa scelta, non si può non imputare al Presidente l'errore di aver lasciato il campo aperto ai repubblicani. E loro ne hanno approfittato avocandosi il ruolo di “ultimo protettore”: lo hanno fatto tutti, ma soprattutto Trump, che ha chiesto di bloccare al confine i musulmani, e Cruz che ha detto di essere pronto a ereditare un paese in guerra per sconfiggere il nemico. Non è un caso se entrambi oggi guidano i sondaggi per il caucus dell'Iowa.

Così ieri notte, per la “storia”, nel suo ultimo discorso sullo stato dell'Unione, Obama ha voluto di nuovo dare un messaggio di fondo di ottimismo e di razionalità a un paese che resta agitato sul fronte sicurezza e per le evidenti difficoltà della classe media. Vero, per l'economia c'è da essere ottimisti nonostante tutto: l'America è uscita dalla recessione, ha creato occupati per 70 mesi consecutivi, ha ridotto drasticamente un disavanzo pubblico che sembrava irrecuperabile. Ma questo risultato è intrinseco alla natura americana, predisposta sul piano sistemico alla reazione, alla duttilità, al rimboccarsi le maniche per guardare al domani. Sul fronte della politica estera invece, Obama, affidandosi alla razionalità, a questo suo insospettato sentimento WASP che lo spinge verso la scelta “giusta” (in buona fede) contro quella “opportuna”, ha commesso gli stessi errori che hanno finito con l'aprire spazi di politica interna ai repubblicani. In questo caso però, danneggiando il paese, non solo il suo partito.

Il discorso del Cairo, da cui si sono diramate le primavere arabe, l'abbandono di governanti sicuramente amici degli americani come Hosni Mubarak, il voltafaccia all'Arabia Saudita, la mano tesa dei primi giorni nel rapporto con la Cina, gli errori commessi in Siria e nel rapporto con Vladimir Putin si riconducono tutti alla stessa radice: Per Obama c'era una cosa “giusta” da fare e l'ha fatta. Ieri sera ce lo ha confermato. Dopo averci investito per anni, vuole lasciare per la storia l'immagine di essere un Presidente “buono”. Con un limite, per definizione i presidenti, i leader non devono essere mai troppo buoni perché alla fine all'esame dei risultati concreti, la “ storia” non sarà clemente.