Tendere a una contrazione del precariato generata da una crescita dei contratti di lavoro a tempo indeterminato e favorire efficienza nella intermediazione tra domanda e offerta di lavoro sono stati due cruciali obiettivi posti al Jobs Act. Il successo della riforma si lega in misura non piccola al superamento, su entrambi i terreni, di alcune particolarità del mercato del lavoro italiano. In questa nota si affronterà il primo tema.
Nel 2005 il tempo determinato costituiva in Europa (a 27 paesi) una quota pari al 40% della occupazione complessiva nella fascia di età 15-24 anni.
In Italia la quota era 37 per cento. Nel 2014 la quota sale al 43% in Europa, in Italia al 56%: una crescita che si caratterizza in modo unico per rapidità e dimensione. Nella fascia 25-54 anni le due quote sostanzialmente si riallineano: 12% in Europa e 13% in Italia, nel 2014. La particolare crescita del tempo determinato non coinvolge, però, solo i più giovani. I dati Istat indicano nel secondo trimestre 2015 una quota di lavoratori a termine nella occupazione dipendente che giunge al 24% nella fascia di età 25-34 anni, mentre era pari al 14% nel 2004. Un esteso rallentamento nel raggiungere contratti stabili nel posto di lavoro si è dunque prodotto nell’ultimo decennio e in questo rallentamento si è nella sostanza concretizzata la crescita del tempo determinato.
Con buon pragmatismo, le nuove regole del Jobs Act tendono a un equilibrio tra tutele del lavoro e flessibilità, un equilibrio che da un lato punta all’estensione del tempo indeterminato, eliminando peraltro ostacoli ai processi di aggiustamento della forza lavoro all’interno delle imprese, dall’altro riconosce ampie e opportune flessibilità alle altre forme contrattuali ammesse.
I primi segnali dell’applicazione della riforma danno risultati interessanti e sollevano quesiti. Nella lenta ripresa dell’occupazione nel 2015, i dati di flusso dell’Inpes indicano un consistente aumento delle assunzioni a tempo indeterminato nel periodo gennaio-ottobre: +30% rispetto allo stesso periodo 2014, contro una leggera flessione delle assunzioni a termine, -2 per cento. Le trasformazioni, poi, da tempo determinato a tempo indeterminato crescono in questo periodo del 16 per cento. Un sostegno a questi risultati è stato certo fornito dall’esonero contributivo sulle assunzioni a tempo indeterminato nel 2015 disposto per un triennio dalla Legge di Stabilità 2015, ma la riforma ha avuto anche una sua efficacia. Come è stato sottolineato da Marco Leonardi in un recente seminario per il trentennale della Associazione italiana degli economisti le lavoro, la crescita delle assunzioni a tempo indeterminato nei mesi gennaio-marzo, dunque quando lo sgravio contributivo era operante ma il contratto a tutele crescenti non era ancora in vigore, è sensibilmente inferiore alla crescita registrata nei mesi successivi, dopo l’entrata in vigore a inizio marzo del contratto a tutele crescenti.
Un aspetto del nuovo contratto induce a qualche considerazione su questi dati. Con il Jobs Act il drastico ridimensionamento dell’art. 18 si è unito al disegno, per la chiusura di un rapporto di lavoro, di una possibile “offerta di conciliazione” da parte dell’impresa, un’offerta legata all’anzianità di servizio del lavoratore e la cui accettazione estingue, senza più possibilità di impugnazione, il rapporto di lavoro. È in sostanza una severance pay coordinata e favorita dalle legge, che implica – aspetto del tutto trascurato negli infiniti dibattiti sulle modifiche dell’art. 18 – un aumento del costo atteso del lavoro. Questo aumento ha un notevole rilievo, se si considera che (peraltro a differenza di analoghi istituti in altri paesi europei) la norma estende l’offerta di conciliazione sia ai licenziamenti per motivo oggettivo sia ai licenziamenti per motivo soggettivo. La decisione è stata certo coraggiosa, elimina problemi e riduce conflittualità, ma è anche onerosa per le imprese. Presumibilmente, la severance pay non incide molto sulle assunzioni, tanto più in presenza di bonus contributivi, ma condurrà a una maggiore selezione della forza lavoro, poiché la costosità del licenziamento cresce con l’anzianità di servizio e riguarda in linea di principio tutti i licenziamenti. Per quanto positivi, la limitatezza dei dati finora registrati non consente indicazioni su se e quanto l’attuale aumento del costo atteso del lavoro inciderà sulle decisioni di occupazione delle imprese. In conclusione, dunque, gli effetti del nuovo contratto sulla struttura dell’occupazione e su un più ragionevole bilanciamento tra tempo determinato e tempo indeterminato vanno considerati ancora questione aperta. La pesantezza in Italia del costo del lavoro, va infine ben sottolineato, rimane l’ostacolo più forte sulla strada di un tale, più ragionevole bilanciamento.
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