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L’ottimismo di Obama e il declino dell’America

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USA E GLOBALIZZAZIONE

L’ottimismo di Obama e il declino dell’America

Il discorso del presidente Obama sullo “Stato dell’Unione” di martedì scorso ha assunto un’importanza storica, sia per la valutazione complessiva dei suoi mandati in scadenza, sia per i programmi delle elezioni americane per il nuovo presidente, con primarie e voto finale entro l’anno, nonché per il futuro degli Stati Uniti, che finora sono stati determinanti per la maggior parte di ciò che è accaduto e accade nel resto del pianeta. Ne è prova il conclusivo accordo che assicura la natura esclusivamente pacifica del programma nucleare iraniano, raggiunto ieri a Vienna e siglato dal segretario di Stato americano Kerry con la rappresentante dell’Unione Europea Mogherini e il ministro degli esteri iraniano Zarif.

Quel discorso cade in taglio, forse nel momento più delicato della globalizzazione economico-politica e sociale che nella storia dell’umanità, anche per le sue implicazioni quantitative, non ha mai avuto precedenti così disarmoniosi e caotici. Le parole di Obama esigono perciò una valutazione critica e rigorosa, lontana dalle facili prese di posizione favorevoli o contrarie, di cui sono ricolmi i mass media mondiali, influenzati nel bene e nel male dall’inevitabile carica retorica che contraddistingue i discorsi degli uomini politici di tutti i Paesi.

La sua sintesi è stata la carrellata delle realizzazioni dei progetti, in parte portati a termine e in parte ancora da attuare, per la mancanza di collaborazione da parte del Congresso, ma soprattutto la rivendicazione di un persistente ottimismo che rese possibile la sua nomina a primo Presidente afroamericano ed ha consentito alla nazione di affrontare le crisi economiche e globali nei sette anni passati.

Il richiamo è sostanzialmente agli stessi valori che Obama aveva sottolineato a Oslo, nel discorso del dicembre 2009 di accettazione del premio Nobel per la pace; discorso così ricolmo di dichiarazioni fondamentali per la conservazione della pace, tanto da far scrivere a Foreign Affairs che la sua impudenza ha creato un inutile divario tra le parole e i fatti.

È ora indubitabile che la leadership americana è in declino, insieme con una non più garantita pax americana; mentre il mondo è in pieno caos, nessun discorso sullo Stato dell’Unione, per eloquente che sia, può spiegare l’inquietante realtà dei ripetuti attacchi che provengono dai terroristi islamici. È pur vero che alcuni recenti successi di Obama in politica estera sono innegabili: ad esempio, a partire dall’accordo nucleare con l’Iran, alla riapertura di un’ambasciata a Cuba, al Trattato di libero scambio nella regione asiatica del Pacifico, e più in generale agli accordi sul clima, nei quali ha convinto anche la Cina a partecipare.

Tuttavia, un Presidente che ha autorizzato il raid per l’assassinio di Osama Bin Laden, aperto alla sfacciata comunicazione televisiva in diretta, e poi totalmente opacizzato sul dopo morte di Bin Laden, e che ha dichiarato di aver decimato Al Qaeda, ha poi ammesso martedì scorso che proprio Al Qaeda è ancora una minaccia per l’America.

E poi: mentre aveva sperato e confermato di voler chiudere le guerre in Iraq e in Afghanistan, oltre a queste, lascerà al suo successore, altri conflitti aperti in vari Paesi. A ciò si aggiunga la promessa, mai attuata, di chiudere Guantanamo e le conseguenti violazioni dei diritti umani.

Purtroppo questo declino dell’autorevolezza americana a livello internazionale ha comportato anche, all’interno, qualche grave incrinatura nell’assetto istituzionale. Mi basterà citare due risalenti importanti articoli di uno dei maggiori costituzionalisti americani, Bruce Ackerman, apparsi sul New York Times: il primo, del settembre 2014, dal titolo: “Il tradimento di Obama della Costituzione”; il secondo, del febbraio 2015, dal titolo: “Congresso, non farti ingannare: Obama continua a credere in una guerra illimitata”. Il professor Ackerman ricorda che il Presidente Bush ebbe un espresso consenso dal Congresso per l’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq, mentre per la guerra all’ISIS Obama agisce sul solo presupposto che il Presidente, nella qualità di comandante in capo dell’esercito, ha l’autorità unilaterale di dichiarare guerra, concludendo che Obama non solo tradisce il corpo elettorale che l’ha votato due volte, sulla promessa che avrebbe posto fine alla politica di Bush di continui abusi del potere esecutivo, ma ha altresì tradito la Costituzione sulla quale ha giurato. La ricerca della base giuridica di questo tradimento sta in una sottile interpretazione della Risoluzione del Congresso del 2001, che aveva autorizzato il Presidente ad usare le armi contro Al Qaeda, dopo l’attacco alle torri gemelle.

Nelle parole del Presidente lo stato della politica americana è pieno di rancore e di sospetti tra parti tra loro divise, diverso da quello dei mandati di Lincoln e Roosevelt, i soli presidenti che crearono, contrariamente a lui, consenso ed unità. Infatti, nonostante l’Affordable Care Act, che ha ridotto il numero degli americani senza assicurazione sanitaria, che costituisce certo il maggior risultato legislativo di rilievo, l’ostilità fra potere esecutivo e legislativo permane elevatissima.

Eccessiva appare anche la conclusione sulla situazione dell’economia americana, a proposito della quale, secondo le parole del Presidente, ogni dichiarazione di declino è aria fritta politica (political hot air). In un paese, tuttavia, dove se è vero che la disoccupazione è caduta al 5% e che 14 milioni di posti di lavoro sono stati creati dall’inizio della ripresa, è altresì vero che la disuguaglianza ha continuato ad aumentare, al punto, che secondo la recente analisi dell’economista Emmanuel Saez l’1% dei più ricchi ha incassato il 58% di tutto l’aumento di reddito negli ultimi cinque anni. Senza contare che quell’1% condiziona ormai, in base alla totale libertà di finanziamenti anche anonimi ai politici, ogni decisione che perpetui con l’incredibile riduzione diretta ed indiretta delle tasse, la totale ineguaglianza che contraddistingue l’America. L’attuale politica monetaria dei tassi e di rafforzamento del dollaro, acuita in questi giorni, sta mettendo in difficoltà i paesi emergenti, gravemente indebitati. Naturalmente è questa una politica per il predominio economico degli Stati Uniti che svantaggia pesantemente, con un’Europa assente, anche la Russia e la Cina, la cui collaborazione politica dovrebbe essere essenziale per evitare una globalizzazione distruttiva, senza giustizia, e piena di disuguaglianze, abbracciata alle più pericolose ideologie del capitalismo finanziario che ha dovunque calpestato i diritti principi delle democrazie liberali.

Purtroppo, in conclusione, il futuro del mondo globalizzato non pare potersi abbandonare ad una pacifica supremazia economico – tecnologica americana, ancora lontana dallo spinto ottimismo del discorso sullo Stato dell’Unione.

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