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La minicrescita e l’ottimismo (esagerato) di Juncker

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La minicrescita e l’ottimismo (esagerato) di Juncker

La polemica tra il presidente della Commissione Europea Juncker e il presidente del Consiglio Renzi va valutata considerando che l’eurodogmatismo non batterà l’euroscetticismo e l’eurodisfattismo causati da sei anni di crisi affrontata male anche con la conseguenza di accentuare le asimmetrie tra Paesi a vantaggio di una dominanza tedesca.

Bisogna subito notare, tuttavia, che è inusitato un attacco come quello di Juncker a Renzi rafforzato poi dalle lamentele di non avere interlocutori (“sherpa”?) euro-italiani. Sono polemiche sbagliate specie perché le critiche di Renzi sono sui decimali che prevalgono sulla crescita. Osservazione condivisa da esperti di varia estrazione politica e culturale diversa da quella del ministro delle Finanze tedesco Schäuble la cui aspirazione, forse, è quella di inflazione e crescita zero, occupazione in Germania e disoccupazione altrove.

L’interesse europeo e Juncker

La bassa crescita e la disoccupazione sono infatti il problema economico principale della Ue e della Uem a cui Juncker non ha dato risposta nella sua polemica conferenza di inizio anno navigando invece tra gli scogli europei (Polonia, Regno Unito, Schengen, Turchia) con l’abilità di un consumato marinaio attento al galleggiamento della Commissione più che alla meta europea. Due sole volte Juncker si è infervorato: contro Renzi e per rivendicare un suo merito sia a proposito di flessibilità del fiscal compact sia per il suo Piano investimenti. A questo proposito la sola frase della sua conferenza riportata per iscritto nel sito della Commissione afferma: «La gente ha detto che il Piano non avrebbe funzionato, che i governi non lo apprezzano, che il settore privato non ci crede. Ma nei primi tre mesi abbiamo mobilitato 50 miliardi in 22 Paesi membri e 81mila Pmi stanno già beneficiando del Piano». E ancora nel documento allegato si afferma che il Piano ha «la potenzialità di riportare gli investimenti europei sulla loro traiettoria storica».

Sono affermazioni molto impegnative. Infatti se ogni trimestre (e il primo citato dovrebbe essere stato il più debole) si mobilitano 50 miliardi di investimenti, allora nei nove trimestri (dall’ultimo del 2015 all’ultimo del 2017) si mobiliterebbero 450 miliardi (ovvero 200 miliardi all’anno nel 2016-17) rispetto ai 315 preventivati partendo dai 21 liquidi disponiblili. Sarebbe un “miracolo” anche se non bastante a compensare la caduta, causata dalla crisi, tra i 230 e i 370 miliardi di euro di investimenti annui rispetto al trend.

Tuttavia sul disegno del Piano Juncker la nostra opinione rimane positiva ma riteniamo che la sua potenzialità sia debole e lenta. Solo con l’utilizzo del Fondo Esm che emetta eurobond comperati anche dalla Bce e con un totale coinvolgimento delle National Promotional Bank e non solo della Bei, il volume di investimenti potrebbe togliere la Ue e la Uem da un stato di semi-stagnazione con conseguenze politico-istituzionali molto negative per l’Europa e per gli Stati membri. Noi crediamo che Juncker ne sia consapevole visto che nel 2010 aveva proposto l’emissione di eurobond scontrandosi con la Merkel. Per questo bisogna valutare bene se un suo indebolimento politico rafforzi la linea Schäuble forse anche rappresentata dal (troppo) potente capo di gabinetto di Juncker, Martin Selmayr.

L’interesse italiano e Renzi

Quattro sono state le interpretazioni delle prese di posizione di Renzi: obiettivi elettorali italiani dai quali prescindiamo per nostra incompetenza, volontà di forzare la Commissione a dare risposte positive alle varie richieste italiane, preoccupazione che con questi ritmi di crescita l’Italia che è interconnessa all’Europa non recupererà il terreno perduto nella crisi, preoccupazione della crescita degli euro-disfattisti.

L’Italia ha chiesto in totale alla Commissione per il 2016 una flessibilità di 0,6 punti percentuali di deficit sul Pil (dallo 1,8% al 2,4%) per le tre clausole previste dalla Commissione: riforme strutturali in corso, cofinanziamento di investimenti europei, costo degli interventi per le immigrazioni. Guardate in termini macro sono tutte richieste fondate che possono essere respinte solo con una interpretazione cavillosa delle regole del fiscal compact ed annessi. Chi dice che è meglio usare la diplomazia con i tecnici della Commissione per ottenere queste flessibilità può avere ragione in termini tattici ma non in termini politico-economici che devono caratterizzare l’azione di un Paese come l’Italia. Anche Padoan è su questa linea e nessuno può dire che pensi alle elezioni o che non sia un esperto economista assai rispettato nell’Eurogruppo e nell’Ecofin. Peccato però che tra i commissari non ci sia una nostra presenza in un dicastero economico come noi avevamo molto caldeggiato.

Ci sono poi altre questioni (bad bank, Ilva) su cui la Commissione oppone all’Italia veti configurando aiuti di Stato e costringendoci a perdere un tempo che logora la fiducia, specie nel sistema bancario.

L’Italia ha ripreso a crescere e segnali che la fiducia stia ritornando nel nostro Paese viene anche dal Piano Juncker perché, al pari della Francia, siamo il Paese che ha avuto il maggior numero di progetti finanziati dalla Bei di cui 7 per investimenti in infrastrutture e innovazione (per 1,3 miliardi con un potenziale moltiplicativo a 4,3 miliardi) e 10 per investimenti di Pmi e start up (per 1,89 miliardi con un potenziale moltiplicativo a 3,5 miliardi). Se il risveglio degli investimenti in Italia fosse facilitato anche dal credito la nostra crescita potrebbe accelerare molto.

L’interesse italo-europeo

L’Italia fa anche bene a pressare le istituzioni europee per politiche di investimenti molto più forti come richiesto da 17 milioni di disoccupati dell’eurozona ai quali si aggiungeranno adesso molti immigrati. L’eurozona deve crescere stabilmente intorno al 2,5% per superare questi problemi. Pensare che le soluzioni vengano dell’onnipotente ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, che aspira ad inflazione e crescita zero, vuol dire condannare l’Europa. Per questo la condivisibile spinta politica di Renzi va dosata anche per tenere una collaborazione fattiva con la cancelliera Merkel. Il 2017 con la ricorrenza dei 60 anni dei Trattati di Roma è vicino. Perché non prepararla da subito con una «Convenzione Costituente» tra i sei Paesi firmatari del 1957?

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