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anniversari

L'Europa di Maastricht nasceva 25 anni fa, un momento decisivo per la nostra storia recente

Sono passati venticinque anni, un quarto di secolo, da quando, nella notte fra il 10 e l'11 dicembre del 1991, i capi di Stato e di governo dell'Unione europea, all'epoca composta da dodici Paesi, si riunirono a Maastricht, cittadina olandese sconosciuta ai più, per porre le basi dell'accordo politico che due mesi dopo avrebbe portato alla firma di un trattato decisivo per gli sviluppi successivi della nostra storia recente. Il 7 febbraio del 1992 quegli stessi leader – in testa Helmut Kohl per la Germania e François Mitterrand per la Francia (Giulio Andreotti per l'Italia) - si trovarono di nuovo in quella cittadina dei Paesi Bassi per la firma del trattato. Nacque così l'Europa di Maastricht.

Con ciò i Dodici ritenevano di aver tratto le conseguenze politiche di un evento straordinario verificatosi poco prima nel cuore dell'Europa, creando scompiglio negli equilibri geopolitici consolidati del secondo dopoguerra: la riunificazione tedesca. Il 9 novembre del 1989 era caduto il muro di Berlino. Un anno dopo, anche grazie alla capacità di Kohl di cogliere l'attimo, la ex Ddr non esisteva più. La Germania era tornata unita. La questione tedesca si impose con forza come tema prioritario all'attenzione della cancellerie di mezzo mondo, in primis a Parigi, ma anche a Washington, Mosca, Londra, Roma.

La Germania unita faceva paura. Evocava lo spettro delle ambizioni di egemonia tedesca sul Vecchio Continente, che mezzo secolo prima aveva travolto l'Europa, gettandola nel baratro della seconda guerra mondiale. Bisognava imbrigliare la Germania, depotenziarla, vincolarla indissolubilmente al resto d'Europa, come il gigante Gulliver inchiodato a terra dai lillipuziani nel romanzo di Jonathan Swift. Soprattutto bisognava neutralizzare il rischio di una nuova deriva tedesca verso l'Europa centro-orientale, rafforzando l'ancoraggio ad Ovest di Berlino.

Dal cilindro delle cancellerie saltò fuori un progetto che languiva da tempo a Bruxelles nei cassetti della Commissione europea: l'unione monetaria. Rispolverando il vecchio “piano Werner” dei primi anni Settanta, Jacques Delors, socialista francese, all'epoca presidente della Commissione, diede nuovo impulso a quel progetto. Determinante fu il contributo visionario di uno dei suoi più stretti collaboratori: Tommaso Padoa Schioppa, un fuoriclasse prestato alla tecnostruttura di Palais Berlaymont. Nella sua versione originale l'unione doveva essere innanzi tutto economica e poi anche monetaria. Doveva, inoltre, essere parte integrante di un progetto più ambizioso, che includeva anche l'unione politica come secondo pilastro.

Nel complicatissimo negoziato a dodici il pilastro dell'unione politica si perse per strada. Rimase l'unione economico-monetaria, in cui però la componente economica fu annacquata, mentre quella monetaria fu definita minuziosamente nei famosi criteri di Maastricht. Era un compromesso. Meglio di niente, si disse. Del resto l'integrazione europea era nata nel 1951 dalla Comunità economica del carbone e dell'acciaio. Gettando il cuore oltre l'ostacolo, la moneta – questo era l'auspicio - avrebbe fatto da traino alla politica.

Per rendere l'euro accettabile ai tedeschi, la nuova valuta fu progettata a immagine e somiglianza del marco. Con Maastricht l'Europa dei Dodici si impegnava a far propria la ricetta che aveva decretato il successo della Germania post-bellica, fatta di tanta disciplina di bilancio, poco debito, stabilità valutaria, un pizzico di inflazione e un'attenzione spasmodica per la competitività del sistema produttivo. Per l'Italia - che veniva da due decenni di finanza allegra, di crescita a debito e di svalutazioni a raffica - era una rivoluzione.

Il 7 febbraio del 1992 ad apporre la firma sul trattato di Maastricht c'erano per l'Italia Andreotti, all'epoca a capo del suo settimo e ultimo governo, insieme al ministro del Tesoro, Guido Carli. Si dice che sulla via del ritorno da Maastricht a Roma Carli abbia commentato: “Nessuno in Italia è consapevole degli effetti che questo trattato avrà sul nostro Paese”. L'episodio è quanto meno verosimile. Di certo gli impegni di Maastricht avrebbero comportato per le politiche economico-finanziarie dell'Italia un'inversione a U. Ne discendevano effetti pervasivi a cascata, che avrebbero implicato riforme strutturali molto impegnative nei settori più disparati: previdenza, concorrenza, privatizzazioni, liberalizzazioni, amministrazioni pubbliche, appalti, giustizia fino alla madre di tutte le riforme strutturali, cioè la lotta alle cosche criminali per stabilire il controllo dello Stato sul territorio in quella metà della penisola, da Roma in giù, in cui lo Stato sembra non esserci.

Così lo strano duo Andreotti-Carli tornò a casa con il pacchetto Maastricht. Le analisi più dietrologiche si spingono fino ad ipotizzare, da parte di Andreotti, un presunto anelito al riscatto di natura quasi religiosa. Dipinto come il Belzebù della politica, che – si diceva – non aveva esitato a stipulare il patto cinico e scellerato con le mafie pur di cementare il potere democristiano, il veterano di Palazzo Chigi avrebbe fatto ricorso, attraverso Maastricht, alla leva del vincolo esterno, per tentare ciò che non gli era riuscito nelle sue pluridecennali esperienze di governo: affrancare l'Italia dalle tante piaghe che affliggevano il Paese e in cui la Dc e poi il Psi e tutto il pentapartito avevano affondato le proprie radici elettorali. La pressione esterna dell'Europa avrebbe ottenuto quello che le spinte interne, per loro intrinseca debolezza, non erano riuscite a ottenere. Per il cattolico Andreotti una sorta di pentimento politico in vista della redenzione poco prima dell'uscita di scena.

E' un fatto che il 17 febbraio 1992, a soli dieci giorni dalla firma di Maastricht, i carabinieri del capitano Roberto Zuliani suonarono a Milano alla porta del Pio Albergo Trivulzio, la Baggina, e arrestarono il presidente, Mario Chiesa, per una vicenda di corruzione e bustarelle. Era l'inizio di Tangentopoli. Da lì nacque Mani Pulite. La magistratura, Antonio Di Pietro in testa, fece, acclamatissima, il suo ingresso trionfale sulla scena politica. Del vecchio sistema dei partiti ben presto rimasero solo le macerie. Era finita la cosiddetta prima Repubblica.

Tra Maastricht e Tangentopoli non c'è alcun nesso di causa-effetto, ma solo una mera coincidenza temporale. Tuttavia i due eventi, per quanto slegati tra loro, contribuirono ad alimentare in una generazione di italiani, convinti che l'Italia meritasse qualcosa di meglio della prima Repubblica, l'aspettativa (poi rivelatasi un'illusione) che fosse arrivato il momento giusto. L'effetto combinato della pressione esterna dell'Europa di Maastricht e delle spinte interne di Mani Pulite avrebbe aperto una stagione di rinnovamento, che avrebbe destato il Paese dal suo torpore: insomma, un'occasione di rinascita.

Andreotti era stato spazzato via. A Palazzo Chigi c'era Giuliano Amato. La nuova agenda politica era dominata da parole-chiave come risanamento, riforme, privatizzazioni. Per la prima volta dopo oltre vent'anni si parlava in Italia di rigore di bilancio. In questo contesto il primo governo Amato varò nel 1992 la manovra finanziaria lacrime e sangue da 92.000 miliardi di vecchie lire. Dopo la sbornia di debito pubblico negli anni Settanta e Ottanta, gli anni Novanta iniziavano all'insegna di una forte volontà di riscatto nazionale. Nella primavera del 1996 un outsider della politica, Romano Prodi, vinse le elezioni. Al ministero del Tesoro chiamò l'ex governatore della Banca d'Italia, Carlo Azeglio Ciampi. Era iniziata la battaglia dell'euro. Una missione che sembrava impossibile. Eppure appena due anni dopo l'Italia, incredibilmente, centrò l'obiettivo. Il 2 maggio del 1998 a Bruxelles la Commissione europea diede l'annuncio: vincendo resistenze fortissime, l'Italia aveva superato l'esame di ammissione all'euro.

Si può discutere (e all'epoca se ne discusse) se questo risultato per l'Italia fosse positivo o se non sarebbe stato meglio prendere più tempo. Di certo, il Paese era riuscito per una volta a fare sistema in uno sforzo corale e condiviso, che coinvolse non solo il governo e la diplomazia, ma anche buona parte delle forze politiche e sociali, la generalità dell'opinione pubblica, dei media e - non da ultimo - i contribuenti-elettori, che pagarono l'eurotassa, limitandosi a qualche brontolio.

Raggiunto il traguardo dell'euro, quella tensione che per poco più di due anni aveva sorretto e animato il governo Prodi di colpo venne meno. Nei palazzi romani del potere le vecchie dinamiche della politica presero il sopravvento. Nell'autunno del 1998 Prodi cadde sotto il fuoco incrociato di D'Alema, Marini e Bertinotti. Nei Balcani incombeva l'obbrobrio della guerra etnica. Per l'Italia iniziò una stagione di galleggiamento. Lo slancio verso il risanamento dei conti pubblici e le riforme svanì. Si era esaurita la forza propulsiva generata dal mix di Maastricht e di Mani Pulite. Il Paese aveva ricominciato a segnare il passo.

Nel 2001 gli italiani consegnarono lo scettro del potere a Silvio Berlusconi. Il suo “meno tasse per tutti”, la promessa elettorale che gli aveva spianato la strada per Palazzo Chigi, portò nell'arco di una sola legislatura a vanificare quasi del tutto i risultati positivi ma gracili, ottenuti a fatica negli anni precedenti sul fronte dei conti pubblici.

Dal 2006 la seconda, brevissima, parentesi prodiana e poi il ritorno del berlusconismo poco o nulla hanno inciso dal punto di vista del recupero di competitività del sistema produttivo italiano, pre-condizione necessaria per stare con successo nell'euro. La “rivoluzione liberale” del Cavaliere è scivolata via senza quasi lasciare traccia, mentre le cosche criminali hanno rafforzato la presa sui territori di riferimento, conquistandosi nel Paese spazi senza precedenti.

Il resto è cronaca politica recente. Nell'autunno del 2011 la tempesta dello spread e la caduta di Berlusconi. Poi le esperienze dei governi d'emergenza, non eletti dal popolo: Monti, Letta e adesso Renzi, il “rottamatore”. E' arrivato a Palazzo Chigi con un obiettivo chiaro: ammodernare il Paese e metterlo in condizione di navigare nel contesto competitivo dell'eurozona e della globalizzazione dei mercati mondiali. I lavori sono in corso. Qualcuno grida: “La democrazia è sospesa”. Ma intanto si comincia a vedere qualche timido segnale di ripresa. Sullo sfondo la politica monetaria fortemente espansiva della Banca centrale europea, che indubbiamente aiuta.

Da Maastricht sono passati venticinque anni, un'intera generazione. Nello stesso arco di tempo la Germania, il paladino arcigno del rigore, ha realizzato con successo la riunificazione. L'abisso che nel 1990 divideva l'Est dall'Ovest non c'è più. I cinque Laender orientali della ex Ddr sono stati pienamente integrati dal punto di vista sociale ed economico. Malgrado lo straordinario sforzo finanziario i conti pubblici sono in ordine. Il bilancio è tornato a mostrare un surplus.

Alle nostre latitudini, invece, risuonano ancora le meste note di uno spartito sempre uguale. Le parole di Oscar Luigi Scalfaro, il presidente della Repubblica, democristiano Doc, che oltre vent'anni fa tuonava contro i “ragionieri di Bruxelles”, riecheggiano nel confronto muscolare di questi giorni tra il governo italiano e le istituzioni europee. Da un quarto di secolo le richieste di Roma a Bruxelles sono più o meno le stesse: sconti, deroghe, flessibilità rispetto a regole comuni che noi stessi abbiamo contribuito a scrivere. Lo sa bene Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione Ue, che nel dicembre del 1991 contribuì a definire l'accordo di Maastricht nella sua qualità di (giovanissimo) ministro delle Finanze del Lussemburgo, l'unico di quel consesso a calcare ancora le scene della politica europea.

Malgrado le polemiche tra Roma e Bruxelles, l'Europa in realtà ci vuole bene. L'Italia ce la deve fare. E' interesse di tutti. Anche per questo la Bce, guidata da Mario Draghi, ha potuto in questi ultimi anni elargire a piene mani la manna dal cielo del denaro facile e abbondante, il cosiddetto quantitaive easing. Le voci di dissenso - a cominciare dalla Bundesbank, che della Bce è il modello ispiratore – sono state finora tenute in minoranza. Il denaro a pioggia da Francoforte serve proprio a darci tempo, a tenere artificialmente basso lo spread, che misura il differenziale di competitività tra le economie dei vari Paesi. Serve a consentire a noi e a qualche altro ritardatario di recuperare il tempo perduto, per portare l'apparato produttivo e più in generale il sistema-Paese ad un livello di competitività e di efficienza, che risulti compatibile con una convivenza serena nell'eurozona. Ma il tempo passa. Venticinque anni non sono pochi. E i compiti a casa prima o poi li dovremo fare.

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