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Guardare lontano per decidere bene e subito

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europa e crescita

Guardare lontano per decidere bene e subito

La Commissione europea ha pubblicato il Rapporto «Previsioni economiche invernali» atteso in Italia per trovare indicazioni sulla nostra situazione economica e su quella europea. E magari qualche spunto polemico che andava invece escluso a priori per chi conosce la tonalità di questi Rapporti. Si tratta infatti di documenti piuttosto tecnici di ottimo livello dove naturalmente non mancano giudizi di valore, più o meno espliciti. Qui possono emergere le diversità valutative che anche noi faremo con riferimento alla Eurozona.

Guardare lontano
Leggendo il Rapporto si pensa che abbia una visione troppo di breve-medio termine, anche se imposta dalle esigenze analitico-procedurali, e decisionale legata al “semestre europeo”. Questo rende difficile individuare le dinamiche di medio-lungo termine e la messa a punto di strategie. Sappiamo che c'è il grande progetto «Europa 2020» ma constatiamo che poi prevalgono le scelte annuali incapaci di cogliere la forza di lungo periodo delle dinamiche economiche mondiali verso le quali l'Europa appare spesso un soggetto sorpreso dagli eventi. Così nella grande crisi, l'Europa sembra essersi accorta solo ex post di quanto fosse lunga. Adesso viene sorpresa dalla deflazione che danneggia le sue esportazioni e dai movimenti migratori che cambieranno la sua società ed economia.

Tecnici e politici
Spesso si dice che la colpa è dei tecnici ma sarebbe bene ricordare che le gabbie deflazionistiche come il fiscal compact o il non uso per fare investimenti del Fondo Esm o il tentativo di scardinare Schengen sono scelte politiche. Il fatto che il Rapporto sia in prevalenza sul breve termine non è una scelta tecnica anche se poi questa fornisce ai politici elementi per le loro decisioni e per confermare o per rivedere le loro convinzioni. Il dualismo tra tecnica e politica è molto delicato e spesso solo l'intelligenza delle parti lo rende creativo.
Prendiamo il caso della lenta crescita in Europa con un incremento del Pil all'1,7% nel 2016 (a fronte dell'1,6% del 2015) con una previsione dell'1,9% nel 2017.
È opinione diffusa che la crescita sia sostenuta adesso prevalentemente dai consumi interni spinti dagli aumenti dei redditi reali favoriti dai bassi prezzi dell'energia e dalla bassa inflazione. A questa spinta si associa adesso quella dalle spese pubbliche connesse alla immigrazione.
Che tutto ciò non basti trova concordi tecnici e politici anche se con diverse intonazioni. Nella Prefazione al Rapporto del Direttore Generale agli Affari Economici e Monetari della Commissione Europea, Marco Buti dice in modo netto che vanno spinti gli investimenti per ricollocare la Ue e la Uem su un trend di crescita. Più sfumato ed ottimistico ci sembra invece essere il commento del Commissario europeo Pierre Moscovici.

Rischi e rimedi
Tra il Rapporto più tecnico e il Commissario più politico vi sono tuttavia concordanze piene sui rischi di lungo periodo e la necessità di politiche economiche europee e degli Stati membri.
I rischi esterni sono il rallentamento delle economie (in particolare della Cina) e del commercio internazionale ma anche quelli dei mercati finanziari e del terrorismo.
I rischi interni sono connessi ai movimenti migratori e al possibile collasso di Schengen. Non meno gravi sono i rischi che, malgrado la politica monetaria espansiva e i consumi in ripresa, non si riesca a spingere la crescita e l'occupazione.
Per noi solo una forte politica di investimento darebbe crescita durevole all'Europa. Anche nel Rapporto la crescita all'1,9% nel 2017 dipenderà dal rilancio degli investimenti da mantenere nel lungo periodo.
Anche Moscovici è sulla stessa lunghezza d'onda ritenendo però ottimisticamente che gli investimenti aumenteranno per le condizioni di finanziamento più favorevoli, per l'aumento nei margini di profitto, per la riduzione dell'indebitamento delle imprese, per la riduzione della capacità produttiva inutilizzata.
Noi non crediamo che questi elementi bastino così come non basta il pur apprezzabile Piano Juncker la cui origine andrebbe rivisitata per verificare se il Presidente della Commissione non fosse incline ad uno più incisivo poi bloccato dalla Germania. Paese che dovrebbe riflettere sui divari tra la Uem e gli Usa nella dinamica degli investimenti totali su 20 anni, dal 1997 al 2017. In termini di tassi medi annui di crescita degli investimenti abbiamo avuto nel periodo 1997-2001 il 6% negli Usa contro il 4,1% nella Uem, nel 2002-06 il 3,1% contro il 2,2%. Fa eccezione il periodo 2007-11 con un tasso medio annuo Usa peggiore (-3,1%) di quello della Uem(-1,3%).
Poi il divario raggiunge i 9,6 punti percentuali a svantaggio della Uem nel 2012 e nel tasso medio annuo grezzo di crescita sui sei anni nei quali gli Usa sono sopra il 4% e la Uem sotto all'1 per cento.
Questa dinamica comparata spiega anche perché il contrasto alla disoccupazione in Europa non può venire durevolmente, ancor più in presenza di immigrati, da misure emergenziali ma solo creando occupazione durevole. Far dipendere questa dalle sole riforme del mercato del lavoro, pur necessarie, non basta come dimostra il fatto che il tasso di disoccupazione della Uem sta scendendo troppo lentamente dall'11% del 2015 al 10,5% del 2016, al 10,2% nel 2017 mentre la disoccupazione giovanile e quella di lunga durata rimangono storicamente alte creando problemi alle finanze pubbliche e alla dinamica della produttività.

Rigore e crescita
La nostra conclusione è che l'Eurozona non uscirà dalla sua debole crescita, che ha aspetti deflazionistici, sulla spinta del quantitative easing e dei tassi di interesse negativi che sono un esperimento rischioso se a lungo protratto. Ci vuole una forte spinta di investimenti e di tecnoscienza sul lungo termine per creare lavoro e competitività sistemica. Fare queste scelte spetta ai politici ed è perciò utile che tra gli stessi vi sia dialettica che, se costruttiva, evita anche che ci si assopisca nella routine.

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