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I limiti del Qe in versione europea

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Europa

I limiti del Qe in versione europea

  • –Martin Feldstein

Perché la policy del quantitative easing (Qe o allentamento monetario) della Federal Reserve americana è riuscita meglio della versione adottata dalla Banca centrale europea? La domanda porta subito a un’altra domanda più pratica: la Bce sarà mai in grado di tradurre il quantitative easing in una crescita economica più forte e in un’inflazione più alta?

La Fed ha introdotto il Qe, ovvero l’acquisto massiccio di obbligazioni a lungo termine, promettendo di mantenere bassi per un periodo prolungato i tassi di interesse a breve – dopo aver concluso che l’economia americana non stava rispondendo in modo adeguato alla policy monetaria tradizionale e al pacchetto di stimolo fiscale promulgato nel 2009. Ben Bernanke, che all’epoca era presidente della Fed, pensò che una politica monetaria non convenzionale avrebbe fatto scendere i tassi a lungo termine, portando gli investitori a passare da obbligazioni di alta qualità ad azioni e altri titoli a rischio, il che avrebbe fatto crescere il valore di quegli asset, facendo aumentare la ricchezza delle famiglie e dunque la spesa al consumo.

La strategia funzionò, i prezzi delle azioni aumentarono del 30% solo nel 2013 e quelli delle case del 13% nello stesso anno. Di conseguenza, nel 2013 la ricchezza netta delle famiglie crebbe di 10 trilioni di dollari. L’aumento della ricchezza portò un aumento della spesa al consumo, rilanciando il solito processo moltiplicatore, con una crescita del Pil del 2,5% nel 2013 e una diminuzione del tasso di disoccupazione dall’8 al 6,7 per cento. L’espansione è continuata negli anni successivi, facendo scendere l’attuale livello di disoccupazione al 5% e il tasso di disoccupazione tra i laureati al 2,5 per cento.

La Bce ha seguito una strategia simile di acquisti su vasta scala e tassi di interesse a breve estremamente bassi (negativi). Ma benché la politica monetaria sia la stessa di quella della Fed, gli scopi sono molto diversi.

In Europa, infatti, l’azionario non è diffuso come quello americano e dunque il Qe non può essere usato per stimolare la spesa facendo aumentare la ricchezza delle famiglie. Invece, uno scopo fondamentale, pur non sbandierato, della politica Bce dei tassi bassi è stato stimolare le esportazioni nette facendo scendere il valore dell’euro. La Bce ci è riuscita con un deprezzamento dell’euro di circa il 25% – da 1,40 dollari nell’estate 2014 a 1,06 dollari nell’autunno 2015.

Io ho sostenuto per anni il deprezzamento dell’euro, perciò penso che fosse la strategia giusta. Ma, anche se quel deprezzamento ha stimolato le esportazioni nette nell’Eurozona, l’impatto sulle esportazioni dei suoi membri e sul Pil è stato alquanto limitato.

Una ragione è che buona parte del commercio dei Paesi dell’Eurozona avviene con altri Paesi dell’Eurozona che usano la stessa divisa. Inoltre, la diminuzione del tasso di cambio euro/dollaro non agevola molto le esportazioni verso gli Usa. Gli esportatori europei di solito fatturano in dollari e aggiustano i loro prezzi in dollari molto lentamente, come ha illustrato molto chiaramente Gita Gopinath di Harvard, in una relazione presentata alla conferenza di Jackson Hole della Fed, ad agosto 2015.

Di conseguenza, tra settembre 2014 e settembre 2015, le esportazioni nette dall’Eurozona sono cresciute meno di 3 miliardi di euro (3,2 miliardi di dollari), un aumento trascurabile per un’economia da 11 trilioni di euro.

Altro scopo del programma di acquisti obbligazionari intrapreso dalla Bce era aumentare la liquidità che le banche dell’Eurozona potevano prestare ad aziende e famiglie, ma finora l’aumento dei prestiti è stato minimo.

Infine, la Bce è ansiosa di raggiungere il suo obiettivo di inflazione al di sotto del 2 per cento. Negli Stati Uniti la strategia del quantitative easing ha aumentato il tasso di inflazione “core” (che non tiene conto della diminuzione dei prezzi di beni come quelli dell’energia e degli alimentari) a 2,1% negli ultimi dodici mesi. Questa è stato una conseguenza dell’aumento della domanda reale, ottenuto riducendo la disoccupazione a un livello in cui i salari in aumento contribuiscono a un più rapido aumento dei prezzi.

Una strategia difficilmente praticabile nell’Eurozona, perché il tasso di disoccupazione si aggira ancora intorno al 12%, circa cinque punti percentuali in più rispetto a prima della recessione. La politica di Qe della Bce può probabilmente arrivare a un aumento dell’inflazione solo attraverso un aumento dei prezzi all’importazione a fronte di un deprezzamento dell’euro. Con questo processo molto limitato, l’inflazione “core” dell’Eurozona resta al di sotto dell’1 per cento.

Recentemente, il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, ha risposto all’ennesima dimostrazione di debolezza e di bassissima inflazione nell’Eurozona dichiarando che la banca allenterà ulteriormente le condizioni monetarie quando verranno stabiliti i nuovi parametri alla prossima riunione di marzo, e questo potrebbe significare ridurre i tassi a breve già negativi ed espandere e/o estendere il programma di acquisti obbligazionari.

I mercati finanziari dell’Eurozona hanno reagito come c’era da aspettarsi: i tassi a lungo termine sono scesi, i prezzi delle azioni sono saliti e l’euro è sceso rispetto al dollaro. Ma l’esperienza passata e le ragioni qui illustrate ci fanno capire che quelle policy serviranno poco per far aumentare l’attività e l’inflazione dei prezzi nell’Eurozona. Per ottenere risultati tangibili nel rilancio dell’economia, i singoli Paesi devono affidarsi meno al Qe della Bce e puntare di più sulle riforme strutturali e sullo stimolo fiscale.

(Traduzione di Francesca Novajra)

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