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Dalla spending review le risorse per la crescita

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Scenari

Dalla spending review le risorse per la crescita

Caro direttore,
non c’è alcun bisogno di inseguire le visioni autarchiche di Grillo e Casaleggio, né di cavalcare le pulsioni nazionalistiche di Salvini e Meloni, per denunciare le incongruenze e le inadempienze di questa Europa. Siamo tutti scontenti, popoli ed élite, nel toccare con mano il magro raccolto di questi lunghi anni di austerità senza crescita e senza lavoro. Per questo - al di là del “movente” chiaramente elettorale che pure c’è, come dimostrano tutti i sondaggi - non si può non comprendere il nervosismo di Renzi, che ormai quasi ogni giorno spara sul Quartier Generale di Bruxelles. Sui soldi alla Turchia, sui migranti, su Schengen, sul gasdotto russo, sui salvataggi bancari.

Il premier è un maestro nell’uso della propaganda mediatica e nella scelta dei “diversivi” politici. Ma stavolta per l’Italia la vera posta in palio è una sola, ed è altissima.

Si tratta di scongiurare una bocciatura dell’ultima legge di stabilità al prossimo esame di primavera. E dunque evitare, nell’ordine, una procedura di infrazione (possibile, visto che il nostro debito pubblico è già considerato dalla Commissione Ue “ad alto rischio” nel medio termine) e poi una manovra aggiuntiva (probabile, visto che la misera crescita del nostro prodotto lordo, appena 0,1% nell’ultimo trimestre 2015, non potrà che far peggiorare il rapporto con il deficit pubblico).

Questo è il “non detto” della contesa sulla flessibilità tra Renzi e Juncker. Ne abbiamo già avuta quest’anno, per uno 0,6% di Pil (tra deroghe su riforme, investimenti e migranti). Ne chiediamo altra, per non dover imporre altri sacrifici e per disinnescare clausole di salvaguardia da 15 miliardi nel solo 2016. Sarebbe una “cura” mortale per famiglie ed imprese. Aumenti delle aliquote Iva dal 10 al 13% e dal 22 al 24% significano rincari certi per beni come pane, latte conservato, zucchero, sale, carne, sigarette, calzature, mobili, elettrodomestici, automobili. Senza contare poi gli inasprimenti delle accise sui carburanti. Un salasso micidiale non solo per le tasche degli italiani, ma anche per le urne del Pd, esposto al doppio stress test del voto amministrativo nelle grandi città a maggio e del referendum confermativo sul “nuovo” Senato a ottobre.

Come se ne può uscire? Mi permetto un suggerimento, banale e non richiesto. Invece di continuare l’assedio ormai pressoché quotidiano al Palazzo d’Inverno della Commissione, il premier dovrebbe giocare d’anticipo. Renzi dice di aver “cambiato verso” all’Italia. Ripete che il suo governo ha fatto un numero di “riforme” che nessun altro governo ha mai fatto nella storia repubblicana. Ammesso che sia vero, e che le leggi varate finora si possano davvero definire a tutti gli effetti “riforme” (dal Jobs Act alla giustizia civile) il presidente del Consiglio non ha fatto l’unica riforma di cui l’Italia ha il più annoso ed urgente bisogno. Quella della spesa pubblica.

È triste ripercorrere la parabola della spending review. È umiliante ricordare l’elenco dei commissari che negli ultimi 8 anni ci hanno perso la testa e poi ci hanno rimesso la poltrona. Piero Giarda, Enrico Bondi, Carlo Cottarelli e infine Roberto Perotti. I primi due usciti dal loden di Monti, gli ultimi dal cilindro di Renzi. Per il premier-rottamatore il “taglio selettivo” della spesa pubblica, all’inizio, doveva essere il cardine delle manovre a venire. L’anno scorso i tecnici avevano ipotizzato tagli per almeno 10 miliardi, Palazzo Chigi aveva addirittura rilanciato: ne vogliamo 20! Sappiamo com’è finita. Nell’ultima legge di stabilità, sulla carta, la spending review vale 7 miliardi. In realtà quasi 5 sono i soliti tagli lineari, esecrati ai tempi delle cartolarizzazioni tremontiane e adesso riesumati nella stagione delle “narrazioni” renziane. Con tanti saluti ai due commissari costretti a gettare la spugna. «Mi avevano proposto di risparmiare spegnendo di lampioni per le strade», li ha liquidati il premier. Una piccola, grande bugia.

Per rendersene conto, basta riprendere le ultime proposte di Perotti e il lavoro istruttorio fatto in precedenza da Cottarelli, poi certificato dal suo libro pubblicato prima dell’estate scorsa («La lista della spesa», Feltrinelli). In quei preziosi documenti c’è tutto quello che serve per domare il Leviatano. Lasciarli ammuffire nei cassetti di Palazzo Chigi è un errore imperdonabile, che rischiamo di pagare caro. È difficile spiegare ai gufi della Commissione europea e ai falchi del Nord luterano che di fronte a una “miniera” da oltre 740 miliardi di spesa primaria (820 miliardi di spesa totale, meno 80/90 miliardi di oneri per interessi) un governo che si professa “riformatore” è in grado di estrarre solo qualche sassolino. Se anche si volessero escludere dall’intervento le pensioni e la sanità (grosso modo 520 miliardi) resterebbe una “vena aurifera” di spesa da 220 miliardi, dalla quale attingere risparmi di breve, medio e lungo periodo.

I capitoli sui quali operare i tagli selettivi sono lì, a portata di mano. Quante volte abbiamo sentito parlare di risparmi sull’acquisto di beni e servizi, riducendo da 34 mila a 35 le stazioni appaltanti delle pubbliche amministrazioni? Il decreto 66 del 2014 è stato il primo passo, Cottarelli aveva ipotizzato risparmi possibili per 7,2 miliardi quest’anno. Ma di fronte a questa montagna, la riforma della Pubblica Amministrazione ha partorito il solito topolino. Quante volte abbiamo sentito gridare allo scandalo, per gli sprechi delle 8 mila Spa controllate dagli enti locali, che perdono 1,2 miliardi l’anno e costano 1 miliardo solo per i consigli d’amministrazione? «Le ridurremo a mille», era la promessa. Anche qui: Cottarelli aveva previsto risparmi a regime di 2/3 miliardi l’anno, mentre il decreto Madia è solo un pannicello caldo. Quante volte abbiamo sentito parlare della giungla dei trasferimenti alle imprese, che ammontano a 32 miliardi (il 2% del Pil)? Al netto dei capitoli più difficilmente comprimibili (Anas, Ferrovie, Poste) Cottarelli e Perotti avevano individuato un volume di spesa aggredibile di 4,5 miliardi, dai fondi per l’autotrasporto alle scuole private, dal cinema all’ippica. È ancora tutta lì.

Chi non ricorda l’impegno ad eliminare gli sprechi sulle spese militari, che valgono 20 miliardi (l’1,2% del Pil) e che, al netto di armamenti e costi d’esercizio, per circa due terzi se ne vanno per pagare gli stipendi? Un record che ci vale il terzo posto tra i Paesi Nato, tra i quali possiamo vantare un altro primato indiscusso: il numero dei marescialli, che sono un terzo dei membri dell’esercito. L’ultimo rapporto sulla spending review stimava possibili risparmi per circa 3 miliardi. Mai visti, finora. E chi non ricorda il “venghino siori venghino” con il quale il presidente del Consiglio nel marzo 2014 lanciò in conferenza stampa la grandiosa vendita su eBay delle auto blu? Ad oggi quel ricco “parco” da quasi 54 mila mezzi, di cui 5.727 ad uso di politici e funzionari pubblici, è stato sfoltito di poco più di 50 automobili. La “lista della spesa” sarebbe ancora lunghissima. Ma fermiamoci qui. E torniamo al suggerimento. Renzi non aspetti il Rapporto di primavera della Commissione, in un continuo gioco al rialzo delle provocazioni con le tecnocrazie europee. Metta al lavoro il commissario rimasto dopo le dimissioni di Perotti, Yoram Gutgeld, insieme al nuovo “ministero ombra” dell’economia guidato da Tommaso Nannicini. Rilanci domattina un piano finalmente serio e credibile di spending review, da almeno 25/30 miliardi, con i quali finanziare nei prossimi tre anni un programma altrettanto serio e credibile di riduzione dei carichi fiscali, a partire da quelli sul lavoro.

L’Europa e i mercati, pericolosamente tentati a rifar valere la “dittatura dello spread”, chiedono questo: un progetto che renda sostenibile un debito pubblico tuttora inchiodato al 133% del Pil, ma nella prospettiva di uno stabile freno alla spesa (che negli ultimi cinque anni di crisi finanziaria è cresciuta del 27,5%), e soprattutto di un vigoroso sostegno al reddito (che tra il 2009 e il 2013 è crollato del 10%). Meno spesa, meno tasse, come ha ripetuto Mario Draghi al Parlamento di Strasburgo. Questa è la vera Grande Riforma che manca. Se esistesse davvero un Partito non “della” Nazione, ma “per” la Nazione, proverebbe a farla subito.

L’autore è conduttore di «Ballarò»

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