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La salvezza dell’Unione passa dagli investimenti

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La salvezza dell’Unione passa dagli investimenti

La flessibilità di bilancio, che il Governo ha chiesto di attivare per un punto di Pil con la manovra 2016, è una strada certamente percorribile, se declinata correttamente all’interno delle regole europee e dunque senza infrangere il tetto del 3% del deficit, che pagheremmo caro nel finanziamento del nostro debito sui mercati, come peraltro ha più volte assicurato il Governo. E soprattutto se i margini offerti dalla comunicazione sulla flessibilità avviata dalla Commissione Ue il 13 gennaio 2015 saranno diretti a sostenere la ripresa. In Europa servono politiche espansive, tali da aprire spazi per ridurre una pressione fiscale che continua a pesare da noi come un macigno sull'economia, a causa dell’alta evasione e di un sistema generale del prelievo che solo ora a fatica si sta cercando di rendere più “civile”.

In sostanza, la flessibilità europea non va interpretata come un “regalo” o una “concessione”. La deviazione temporanea dall’obiettivo di medio termine, in poche parole il pareggio di bilancio in termini strutturali, se sostenuta da un programma di riforme effettivamente realizzate e da investimenti pronti a partire, non è un vulnus all’ortodossia contabile europea. La garanzia – da onorare con puntualità – è offerta dal permanere di un avanzo primario nella forchetta tra il 3 e il 4% del Pil, e dalla graduale riduzione del debito pubblico, come promette il Governo con la manovra 2016.

Percorso da accompagnare con una spending review selettiva, proiettata su un orizzonte quanto meno di medio periodo, perché il vero problema da noi è aggredire la spesa improduttiva e contemporaneamente avviare un tragitto di riqualificazione degli oltre 820 miliardi che lo Stato spende ogni anno. Razionalizzazione selettiva, non tagli lineari o misure di contenimento della spesa decise solo per fare cassa, poiché è del tutto evidente che anche l’intervento sulla spesa, se non mirato e “chirurgico”, rischia di produrre effetti recessivi al pari dell’aumento tout court delle tasse. Se l’economia rallenta, in un contesto internazionale dominato dall’incertezza, la partita va giocata sul versante della domanda aggregata, puntando prima di tutto sul rilancio in grande stile della fondamentale componente degli investimenti. Già nel Def di metà aprile, documento programmatico su cui Bruxelles calibrerà il suo giudizio sulla legge di stabilità previsto per maggio, il Governo dovrebbe puntare con decisione proprio sul capitolo delle spese dirette agli investimenti. Queste sì da escludere in tutto o in parte dal calcolo del deficit. Una attenta ricognizione a livello europeo sugli investimenti strategici cui accordare priorità, con annesso un timing preciso e puntuale di realizzazione, potrebbe costituire l’ulteriore garanzia che non si sta provando per questa via ad aprire una stagione di deficit spending a senso unico. È la chiave di volta per provare a spostare la querelle in corso sul tema della flessibilità di bilancio in direzione di scelte precise di politica economica in grado di sostenere una ripresa, che anche alla luce degli ultimi dati Istat relativi all’ultimo trimestre del 2015, procede al rallentatore. E anche l’eurozona non mostra indici di crescita tali da garantire una solida ripresa e un massiccio sostegno all’occupazione. Non è solo il piano Juncker, che reca con sé il vizio di origine degli effettivi conferimenti dei singoli paesi (la loro esclusione dal calcolo del deficit non basta a mobilitare le risorse richieste), a procedere a rilento. Il problema è che senza una dose massiccia di investimenti pubblici e privati il motore dell’economia europea, e italiana in particolare, non ripartirà. Nel 2016 – stando ai calcoli su cui sta ragionando il Mef - gli investimenti fissi lordi, che nel 2013 sono scesi del 5,8%, e nel 2014 del 3,3%, sono indicati in ripresa del 2,5% per attestarsi attorno ai 38 miliardi. Partita da giocare con molta attenzione. Lo ha ribadito il vice presidente della Commissione Ue, Jyrki Katainen: grazie al piano Juncker, sono già stati mobilitati finanziamenti in Italia per 7,8 miliardi di euro su un totale europeo che finora ha raggiunto i 50 miliardi.

La critica implicita è alla cronica incapacità del nostro paese di portare a effettivo compimento opere infrastrutturali e progetti d’investimento, pur avviati ma poi impantanati nel coacervo di intrecci clientelari e burocratici, soprattutto nel Mezzogiorno. Il punto allora è convincere Bruxelles che, accanto al percorso delle riforme strutturali, apprezzate dalla Commissione al pari delle altre capitale europee, e ora in via di ulteriore implementazione con l’atteso riordino dell’amministrazione pubblica, si potrà far conto anche sul rilancio in grande stile di investimenti effettivamente “cantierabili”, e dunque pronti a partire. E’ una componente non secondaria della flessibilità chiesta per il 2016, pari allo 0,3% del Pil (gli 4,8 miliardi su cui tuttora pende il giudizio di Bruxelles) da proiettare su un orizzonte almeno triennale, senza disperdere ulteriori energie nello sterile confronto sugli “zero virgola”.

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