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Acciaio, cuore della Ue da difendere

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Scenari

Acciaio, cuore della Ue da difendere

C’è voluta la minaccia incombente di un’invasione dell’acciaio cinese, praticamente non più contenibile qualora la Ue riconoscesse alla Cina lo status di “economia di mercato” a tutti gli effetti, perché a Bruxelles ci si rendesse infine conto delle gravi conseguenze che sta producendo la mancanza da tanto tempo di una politica industriale a livello comunitario. E oggi, per di più, nel caso di uno dei settori che riveste un’importanza strategica: come del resto ha sempre avuto fin dal periodo della ricostruzione post-bellica. Tanto che la creazione nell’aprile 1951, in capo a un progetto concepito alla fine degli anni Quaranta, della Comunità europea del carbone e dell’acciaio è stata una pietra miliare nell’ambito del processo di sviluppo industriale del secondo dopoguerra avendo posto le premesse essenziali per l’istituzione nel 1957 del Mercato comune europeo.

Dando vita al pool carbosiderurgico franco-tedesco (con l’adesione dell’Italia, del Belgio, dell’Olanda e del Lussemburgo), la Ceca è stata infatti il parto e l’emblema di una risoluzione politica destinata a inaugurare una svolta storica nell’evoluzione dell’Occidente europeo verso un sistema integrato e di libero scambio dinamico e competitivo. Poiché, essendo fondata (come ebbe a dire il ministro degli Esteri francese Robert Schuman) «non sulle parole ma sugli interessi», la prospettiva di una feconda cooperazione in un comparto economico di base e nevralgico avrebbe reso «ogni motivo di conflittualità tra Francia e Germania non solo inconcepibile ma materialmente impossibile». Che era quanto pensavano, insieme a Jean Monnet e Konrad Adenauer, anche Alcide De Gasperi e Paul-Henri Spaak.

Quell’accordo, che diede modo all’Italia di partecipare all’utilizzo delle risorse di uno dei più cospicui bacini minerari europei e al coordinamento di un piano di sviluppo sovranazionale nel campo dell’industria pesante, ebbe rilevanti effetti indotti non solo per la crescita della nostra economia ma pure per l’assorbimento di una parte consistente dei nostri emigranti in cerca di lavoro ne cuore dell’Europa. In particolare, se da un lato la Ceca fornì gran parte del ferro e del rottame necessario alle imprese (per lo più private) specializzate nella produzione a carica solida, attive nell’area padana e in alcune località centrali della Penisola, dall’altro consentì alle imprese (appartenenti all’Iri), situate nei distretti costieri (a Cornigliano, Piombino, Bagnoli e poi Taranto) di realizzare con successo la conversione dei loro impianti al ciclo integrale, dal minerale ai laminati. In complesso, si trattò di un trend segnato sia da un incremento produttivo che da ammodernamento tecnologico e organizzativo decisivi per l’espansione dell’industria metalmeccanica dagli anni del “miracolo economico” in poi.

Negli ultimi decenni la siderurgia europea ha conosciuto, in generale, una difficile fase di ristrutturazione, che ha comportato un ingente carico di oneri finanziari e la riduzione di numerosi suoi effettivi. Ma le innovazioni di processo e di prodotto via via introdotte e consolidatesi non sarebbero oggi sufficienti per tener testa alla concorrenza delle aziende del Gigante asiatico qualora il capitalismo di stato cinese venisse promosso al rango di “economia di mercato” e perciò venissero meno le misure antidumping e i controlli sulle merci provenienti da Pechino al loro ingresso nell’Unione europea.

La siderurgia cinese seguita infatti a contare su una batteria di anomale “rendite di posizione”: dalla persistente compressione dei salari alla carenza di adeguati standard in fatto di sicurezza sul lavoro, dalla pressoché totale mancanza di appropriati congegni di tutela ambientale a un’ampia elusione delle regole commerciali vigenti su scala internazionale. Per di più, ammonta a 400 milioni di tonnellate la sovracapacità produttiva interna delle acciaierie cinesi: ossia, più della produzione annua della Ue; e negli ultimi diciotto mesi le loro esportazioni in Europa sono raddoppiate determinando un’ulteriore caduta dell’occupazione nell’ambito degli stabilimenti della Comunità europea. Di fatto, qualora venissero spalancate le porte alla siderurgia made in China, per quella europea non rimarrebbe altro, prima o poi, che una mesta capitolazione.

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