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Ankara, autobomba contro i militari: 28 morti e 61 feriti. Identificato l’attentatore

L'attentatore suicida che ieri si è fatto esplodere con un'autobomba al passaggio di un convoglio militare nel centro di Ankara, uccidendo almeno 28 persone, è stato identificato come un cittadino siriano di nome Saleh Nejar. Lo rivela il quotidiano Sabah, citando fonti della sicurezza turca. Il presunto kamikaze era, secondo quanto riportato dal quotidiano Sozcu, un membro delle milizie curdo-siriane dell'Ypg. L'uomo, 24 anni, sarebbe stato identificato attraverso le impronte digitali ed era entrato in Turchia a luglio come rifugiato dalla Siria.

La pista dell’attentato di Ankara segue sempre i soliti sospetti, i separatisti curdi del Pkk e i jihadisti dell’Isis. Ma l’autobomba esplosa ieri al passaggio di un convoglio militare - almeno 28 morti e 61 feriti - ha un significato ampio e preoccupante: la Turchia è in guerra dentro e fuori i suoi confini. Attentati devastanti avevano già colpito la Turchia: in ottobre oltre 100 morti per due bombe nella piazza della stazione ad Ankara prima delle elezioni vinte dal partito islamico Akp di Erdogan - le vittime erano in gran parte curdi e militanti dei partiti laici - 33 morti a Suruc in luglio, di fronte a Kobane, il bersaglio in questo caso erano giovani simpatizzanti della causa curda.

Poi il 12 gennaio è venuto l’attentato di Sultanahmet: un kamikaze si è fatto esplodere uccidendo 10 turisti tedeschi, colpendo al cuore il centro storico di Istanbul in un attentato rivendicato dall’Isis.

Ma altre dozzine di attentati attribuiti al Pkk hanno costellato l’azione delle forze armate turche nell’Anatolia del Sud Est, il Kurdistan turco, dove l’esercito non si è scontrato soltanto con la guerriglia ma non ha esitato a colpire in maniera indiscriminata e sanguinosa anche la popolazione nella città di Cizre, con alcuni quartieri ridotti a un cumulo di macerie dalle granate e centinaia di morti.

Al presidente turco Tayyp Erdogan, il cui figlio Bilal è indagato a Bologna per riciclaggio, l’Europa di oggi non vuole rimproverare nulla per la repressione interna dei civili curdi: in cambio di aiuti miliardari si deve tenere in casa 2 milioni e mezzo di profughi siriani che il cancelliere tedesco Angela Merkel e gli altri leader non vogliono vedere entrare nell’Unione.

Erdogan però adesso ha un problema in più: si è lanciato in un conflitto di frontiera con i curdi siriani a colpi di artiglieria ed è ai ferri corti con Mosca. Le milizie curde siriane dell’Ypg combattono a fianco di Assad e della Russia contro il Califfato e altre formazioni dell’opposizione siriana ma sono anche appoggiate parzialmente dagli Stati Uniti. Washington non può fare a meno della fanteria curda anti-Isis e allo stesso tempo è alleata della Turchia: le contraddizioni occidentali in questo conflitto si sprecano. Questa guerra per i curdi siriani rappresenta una storica opportunità per occupare il territorio ai confini con la Turchia: Ankara vede in questa azione una sorta di incubo geopolitico. La possibilità che possa nascere uno stato indipendente o anche una zona autonoma come il Kurdistan iracheno di Massud Barzani, che per altro ha buoni rapporti economici e militari con Ankara.

Se i curdi siriani hanno successo, con l’appoggio anche di Mosca, possono cambiare i rapporti di forza ai confini di un Paese membro della Nato. È una guerra dentro la guerra siriana e per ora senza soluzione, come tutti i conflitti in corso nel Levante: Erdogan ha dichiarato che «non ha alcuna intenzione» di interrompere i bombardamenti contro i curdi siriani affermando che li considera un gruppo terroristico come il Pkk, e ribadendo, se ce ne fosse bisogno, che la lotta al Califfato per lui è solo una scusa.

La Turchia sta pagando i calcoli sbagliati della sua leadership: aveva puntato sulla caduta di Bashar Assad a Damasco e con l’assenso anche delle potenze occidentali ha favorito il passaggio di migliaia di jihadisti. Non solo adesso l’”autostrada della jihad” si è chiusa con l’ingresso in campo di Mosca il 30 settembre scorso ma adesso i jihadisti e i gruppi di opposizione stanno perdendo la battaglia di Aleppo e ripercorrono in senso contrario la rotta della guerriglia mescolandosi ai profughi che fuggono in Turchia.

È per questo che la Turchia e l’Arabia Saudita si stanno mobilitando: rischiano un’altra sconfitta per il fronte sunnita anti-Assad e un ulteriore rafforzamento dell’influenza iraniana nella regione.

Altro che tregua di Monaco: qui non si intravede nessun reale cessate il fuoco e gli attentati in Turchia aprono scenari ancora più preoccupanti per Ankara, l’Occidente e l’Alleanza atlantica.

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